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Daisy Raisi, esordio noir con il libro "La stanza buia"

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“La stanza buia” rappresenta l’esordio dell’autrice Daisy Raisi sul fronte del noir. Protagonista della storia è Lisa, una ragazza ventisettenne affetta da mal di testa e incubi ricorrenti, che, nel tentativo di risolvere i suoi disturbi, si rivolge a un’ipnoterapeuta.
Nel corso delle sedute di ipnosi, emerge un segreto che la ragazza ha sepolto da decenni in una stanza buia della sua memoria. Di lì a breve, lo stesso segreto balzerà prepotentemente all’attenzione di altre persone, in seguito a una concatenazione di eventi che scivolerà verso il delitto. Le indagini verranno condotte dalla squadra dell’ispettore della cittadina di Windsor, nella Contea di Berkshire, dove sono ambientate per la maggior parte le vicende, alla fine degli anni Novanta. La trama prende le mosse dal tema degli abusi infantili perpetrati fra le pareti domestiche e dai conseguenti traumi che possono condizionare una vita intera, se non si hanno il coraggio e gli strumenti per affrontarli e la forza di perdonare. In primo piano le dinamiche familiari, l’eterna lotta fra il bene e il male e l’uso deteriore dei mass media nella “tv del dolore”. Il noir “La stanza buia”, di Daisy Raisi, è disponibile sia in versione ebook che cartacea su Amazon.
Link: https://www.amazon.it/stanza-buia-Daisy-Raisi-ebook/dp/B089P288L7/ref=sr_1_1?dchild=1&qid=1591623397&refinements=p_27%3ADaisy+Raisi&s=books&sr=1-1

Intervista ad Alessandra Boran Presidentessa di Famiglie e Abilità

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di Laura GoriniUna famiglia dovrebbe saper educare alla solidità, al rispetto dei pensieri e sentimenti dell’altro e alla pazienza.



Non è facile far crescere un'associazione no profit e occuparsi di sociale oggigiorno. Ma quando ci si riesce a farlo tanta è la gioia! Lo sa bene Alessandra Boran, presidentessa no profit Famiglie e Abilità, che si occupa quindi non solo di bambini e ragazzi ma anche, come è facile intuire dal nome, delle loro famiglie, che sono sempre il fondamento basilare per la crescita dell'individuo.
Alessandra, che cosa significa oggi essere la presidentessa si un'associazione no profit?
Per quanto mi riguarda significa non accontentarsi mai. Quando si rivolgono a te famiglie giovani con bimbo piccolissimo che hanno appena ricevuto una diagnosi che sai sarà per sempre, vuoi poter dare loro ogni sostegno, ogni miglior contributo affinché non si sentano soli. Per questo motivo sei sempre alla ricerca di creare rapporti, tessere reti che siano di beneficio all’associazione. Sai che al di fuori dell’associazione non c’è nulla e tu devi garantirne il futuro, per tutti loro.
Il Sociale spesso non è considerato come si deve dai più. Perché - secondo lei – c'è ancora molta diffidenza nei confronti di chi lo fa?
Secondo me sono diversi i fattori ma il più importante è, e sarò sincera, che c’è poca lungimiranza. Intendo dire che nella nostra cultura occuparsi del sociale spesso significa nessun guadagno. In realtà c’è tutto da guadagnare! Prima di tutto ne guadagni come persona, dedicarsi al sociale si riceve moltissimo, molto di più di quel che si dà, in termini di crescita e di autostima.
Ma il guadagno può essere davvero anche economico. Investire nel sociale significa eliminare l’assistenzialismo dando opportunità di crescita a categorie di persone con grandi potenzialità che, se fornite dei giusti strumenti, possono diventare essi stessi datori di futuro, anche in termini economici.
Molte persone, quando lo fanno, vogliono rimanere nell'anonimato. Altre invece ostentano questi loro aiuti. Quando lei capisce che una donazione o un aiuto è stato fatto con il cuore e non per apparire o “pulirsi la coscienza”?
Spesso l’associazione viene usata per farsi pubblicità o per esaltarsi. O per averne un guadagno d’immagine ma anche di clientela. Queste persone hanno vita breve però perché non diamo molto spazio a tali figure. Certo il giusto ringraziamento, ma non pubblicizziamo la loro “generosità”. Chi lo fa col cuore sa che riceve più di quanto ha dato, chi lo fa per un guadagno, qualsiasi sia il suo interesse, non sarà sufficiente mai quello che possiamo fare noi in cambio. Perciò si allontanano.
Ma che cosa significa aiutare gli altri e, in particolar modo, i bambini?
Se aiuti l’altro in qualsiasi modo sai che gli dai una speranza. Credo che tutti abbiamo bisogno di sperare. Se aiuti un bambino gli dai un futuro. Cosa c’è di più miracoloso di questo? E tu sei l’autore del miracolo.
Fin dal nome dell'associazione si intuisce che al centro c'è la famiglia. Ma quale è la definizione di famiglia oggi? Come è cambiata nel corso del tempo?
La famiglia è la prima educatrice. Anche della società. Una famiglia dovrebbe saper educare alla solidità, al rispetto dei pensieri e sentimenti dell’altro e alla pazienza. Una famiglia dovrebbe esserne le fondamenta. Ma perché avvenga questo la società a sua volta deve garantirne le basi economiche, legislative, riconoscendone il valore. Se non c’è questo scambio la famiglia non si regge. Oggi le famiglie giovani non vedono grandi prospettive per il loro futuro, sfiduciate molte si sgretolano. Soprattutto se i figli portano una disabilità la famiglia è sola e si perde dividendosi.
Quali sono le maggiori difficoltà che ha riscontrato durante il suo operato? E le soddisfazioni?
Nei primi anni della sua vita l’associazione non è stata vista come un bene per tutti, anche osteggiata a volte. Era un dolore non riuscire a far comprendere cosa si voleva costruire. Soddisfazioni? Tante! Basti pensare che è l’unica associazione in un vasto territorio che lavora con i bambini con disabilità grazie alla collaborazione di grandi professioniste che usufruiscono degli spazi della sede ma che soprattutto ha molti progetti nel territorio all’interno delle scuole, in rete con enti pubblici e privati. Tutti legati all’inclusione delle persone con disabilità.
Come possiamo darvi una mano concretamente?
Sarò diretta: abbiamo bisogno di fondi per un grande progetto, Ability Lab,una struttura educativo- lavorativa che sorgerà nel cuore della Riviera del Brenta in provincia di Venezia. Una struttura che stravolge il concetto di accoglienza perché i suoi gestori, i nostri figli, opportunamente accompagnati, accoglieranno chi vorrà usufruire degli spazi che saranno creati al suo interno. Un progetto cosi ambizioso ha bisogno di tanto sostegno e di lungimiranza!


Il Racconto della Montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento, dal 12 giugno al Palazzo Sarcinelli di Conegliano

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Venerdì 12 giugno apre al pubblico la mostra Il Racconto della Montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento al Palazzo Sarcinelli di Conegliano (TV).

Promossa dal Comune di Conegliano e da Civita Tre Venezie, con il patrocinio della Regione del Veneto e della Fondazione Cortina 2021, la collaborazione della sezione del CAI di Conegliano e della Società Alpina delle Giulie di Trieste, Il racconto della montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento è il terzo appuntamento del ciclo dedicato al paesaggio nella pittura veneta tra XIX e XX secolo a Palazzo Sarcinelli. Curata da Giandomenico Romanelli e Franca Lugato, l’esposizione è volta ad approfondire il tema della montagna, che si presenta in forma significativa nella pittura italiana di veduta già a partire dalla metà dell’Ottocento, acquistando una sempre più decisa caratterizzazione tra la fine del secolo e i primi decenni del successivo, anche grazie alle esplorazioni scientifiche e alla conquista delle più alte cime. 
Accanto alle opere di celebri autori italiani e stranieri che hanno frequentato principalmente le Dolomiti, da Ciardi a Compton, da Sartorelli a Pellis, da Wolf Ferrari a Chitarin provenienti da diverse collezioni private e pubbliche tra le quali l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia, la Casa Cavazzini-Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Udine, la Moderna Galleria di Zagabria, i visitatori potranno (ri)scoprire anche i paesaggi alpini di artisti meno noti. Oltre ai dipinti, la rassegna presenta una selezione di pubblicistica, cartografia, volumi, stampe, a testimonianza della fortuna e del crescente richiamo che il tema assume nella seconda metà dell’Ottocento. Oltre che importante meta turistica, in linea con una tendenza diffusa in altri paesi europei come la Francia e la Gran Bretagna, la montagna ha rappresentato, infatti, un segno identitario dell’Italia e del suo patrimonio culturale, parallelamente al compimento dell’unità nazionale. 
In questo contesto le Dolomiti costituiscono un assoluto protagonista grazie alle loro possibilità formali e cromatiche. Il primo libro dedicato alla loro esplorazione, The Dolomite Mountains, pubblicato nel 1864, scritto e illustrato da due viaggiatori britannici, Josiah Gilbert e George Cheetham Churchill, apre il percorso espositivo. Con questa pubblicazione le Dolomiti vengono inserite definitivamente in quel tour alpino, che il romanticismo ha contribuito a rendere di moda oltre Manica. Armati di block notes e colori, Josiah e George esplorano zone piuttosto sconosciute delle Alpi insieme alle loro mogli, che li aiutano nei rapporti con quei popoli indigeni incredibilmente introversi. Il loro amore per le Dolomiti fa sì che imparino a conoscere una per una le numerose valli alpine, che frequentano dal 1861 al 1863. Queste due coppie rappresentano “i primi turisti in assoluto” delle moderne Dolomiti. 
Accanto a questo volume viene presentato anche Il Bel Paese dell’abate Antonio Stoppani. Geologo, paleontologo, naturalista e patriota, Stoppani dà alle stampe nel 1876 quello che diverrà presto un best seller (contava già 40 edizioni a vent’anni dalla sua prima pubblicazione), destinato a costituire la magna carta della geografia dello Stivale. Suddiviso in serate, cioè in narrazioni rivolte nella finzione letteraria ai suoi nipotini riuniti davanti al camino, Stoppani invita a prender coscienza del patrimonio naturalistico del Paese. Nel libro sono inoltre evidenziati il ruolo e la potenzialità del CAI, il Club Alpino Italiano fondato ufficialmente il 23 ottobre del 1863 da Quintino Sella, descritto come una sorta di sentinella ambientalista ante litteram. 
Il percorso s’incentra anche sulla “riscoperta” della figura del trevigiano Giuseppe Mazzotti (1907-1981), critico d'arte, scrittore e saggista, nonché direttore dell'Ente Provinciale di Treviso per il Turismo, autore e curatore di numerosi lavori per la promozione del territorio. Nel suo fortunato La montagna presa in giro Mazzotti preannuncia il timore di un turismo sfrenato e non di qualità, osservando i nuovi costumi e le recenti liturgie attorno alla montagna e denunciando con ironia le “smanie” di villeggiatura che “inquinano” la bellezza: dalle attrezzature sportive ai segnali colorati per indicare i sentieri, dagli elegantoni alle femmes fatales, dai beoni alle automobili. 
Un altro elemento di novità deriva dall’attenzione che la rassegna rivolge alle prime alpiniste donne, rappresentate dall’esperienza decisamente anticonvenzionale della trevigiana Irene Pigatti (1859-1937), tra le prime italiane alpiniste delle Dolomiti in un periodo in cui le scalatrici erano perlopiù straniere. Fonte di ispirazione ancora oggi, tanto che nel 2010 è stato emesso dalle Poste Italiane un francobollo in suo onore in collaborazione con il CAI, Irene conquista record eccezionali, anticipando la moderna concezione dell’alpinismo intesa come vera e propria pratica sportiva. 
L’originale itinerario registra un particolare sentimento della montagna attraverso opere dedicate principalmente alle Dolomiti, realizzate con linguaggi e stili diversi. Dal realismo e naturalismo di Edward Theodore Compton (1849-1921), Guglielmo Ciardi (1842-1917), Giovanni Salviati (1881-1951) al simbolismo e intimismo di Francesco Sartorelli (1856- 1939), Traiano Chitarin (1864-1935), Teodoro Wolf Ferrari (1878-1945), Carlo Costantino Tagliabue (1880-1960), Millo Bortoluzzi (1905-1995), Marco Davanzo (1872-1955), Giovanni Napoleone Pellis (1888-1962), che sperimentano l’effetto luminoso e cangiante delle cime innevate tra il Veneto e il Friuli. Discorso a parte meriterebbe il triestino Ugo Flumiani (1876-1938). Accanto alle sue più note tele di vette e distese innevate è infatti presentata una serie dedicata all’interpretazione delle “viscere” della montagna con alcune inedite visioni del Carso, di cui coglie scenografiche grotte, fiumi sotterranei, stalattiti, profonde acque increspate. Un effetto di silenziosa sospensione trapela, invece, dai dipinti del bosnìaco-erzegòvino Gabriel Jurkić (1886-1974), che attribuisce nuovi valori simbolici e mistici al paesaggio alpino oltre il confine italiano. “Protagonista indiscusso nella sua generazione - scrive Giandomenico Romanelli nel saggio di catalogo - contribuisce alla nascita e allo sviluppo di quel modernismo croato che tante sorprese riserva, ancor oggi, per qualità e quantità di anime e di talenti purtroppo spesso poco noti o sconosciuti”. 
La selezione di manifesti dei primi decenni del Novecento provenienti dalla collezione Salce di Treviso arricchisce il racconto con la pubblicità degli sport invernali, in particolare grazie ai lavori dell’austro-italiano Franz Lenhart incentrati sulle Dolomiti e Cortina. Perfetti nel taglio modernista, nella tipizzazione dei personaggi, nella essenzialità decorativa dei paesaggi, nell’anti naturalismo e nella vivacissima gamma cromatica, ci raccontano una montagna giovane, felice e dinamica con uno stile che richiama la grande tradizione cartellonistica italiana e francese del primo Novecento e un accenno al sintetismo elegante tipico delle riviste americane. 
L’ultima sezione offre al pubblico un’ulteriore curiosità con la storia eccezionale del triestino Napoleone Cozzi (1867-1916), uno dei primi interpreti dell'alpinismo senza guida nelle Dolomiti e precursore dell'arrampicata sportiva a Trieste. In mostra sono esposti tre suoi taccuini, conservati nell’Archivio della Società Alpina delle Giulie di Trieste e noti quasi esclusivamente agli addetti ai lavori. I quaderni riproducono con delicati acquerelli le alte vie percorse durante le esplorazioni compiute con la sua cosiddetta “squadra volante”, due delle quali nel 1898 alla volta delle Prealpi Giulie e una nel 1902 con la salita delle Prealpi Clautane, le attuale Dolomiti Friulane. I taccuini ci permettono di rivivere queste esperienze, grazie anche a spassose, spesso ironiche, didascalie che accompagnano le raffigurazioni. Nell’ultimo album del 1902 ritroviamo dediche di amici ed esperti alpinisti, tra le quali anche quella di un altro amante della montagna, Giuseppe Mazzotti: “Con la più viva ammirazione queste testimonianze della più pura passione per la montagna”, 16 novembre 1948.
Il catalogo della rassegna con i saggi e i testi dei curatori è edito da Marsilio Editori.

Informazioni www.mostramontagna.it  
Visita guidata con i curatori riservata previo accredito stampa Venerdì 12 giugno, ore 11 Palazzo Sarcinelli, Conegliano Ufficio stampa Civita Tre Venezie Giovanna Ambrosano ambrosano@civitatrevenezie.it, 338 4546387 
Il Racconto della Montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento 
Palazzo Sarcinelli, 
Via XX Settembre, 132, Conegliano (TV) 
12 giugno > 8 dicembre 2020 
Prenotazioni Call center +39 0438 1932123 prenotazione on line 
Orari Apertura venerdì 12 giugno, ingresso gratuito, orari 11>19. 
La mostra è aperta anche sabato 13 e domenica 14 giugno, sempre dalle 11 alle 19. 
La rassegna sarà poi aperta regolarmente dal giovedì alla domenica, dalle 11 alle 19. 
Per aggiornamenti e informazioni, consultare il sito. 
Biglietti Biglietto intero € 11 
Biglietto ridotto € 8,50 per studenti, adulti over 65 anni, convenzioni, gruppi con almeno 10 unità, residenti nel Comune di Conegliano nei giorni feriali 
Biglietto ridotto € 7,00 per gruppi da 10 a 25 
 Biglietto speciale € 7,00 per tutti i membri CAI 
Biglietto ridotto speciale € 6,00 per gruppi Astarte 
Biglietto scuole € 4,00 
Gratuito minori di 18 anni, disabili, guide autorizzate, accompagnatori gruppi, giornalisti, membri ICOM. 
Diritto di prenotazione € 1,50 


Segnalibro, Romano De Marco e il thriller "Il cacciatore di anime" composto di tanti piccoli ingranaggi. L'intervista di Fattitaliani

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Esce il 9 giugno "Il cacciatore di anime" (Piemme) nuovo romanzo di Romano De Marco, ambientato nella cittadina toscana di Peccioli. Fattitaliani lo ha intervistato per la rubrica Segnalibro.

Quali libri ci sono attualmente sul suo comodino?
La fine dei Greene di S.S. Van Dine.
L'ultimo "grande" libro che ha letto?
Lo Stradone di Francesco Pecoraro. Immenso.
Chi o cosa influenza la sua decisione di leggere un libro? 
In genere consiglio di persona fidata ma anche curiosità o conoscenza e apprezzamento per l’autore. Qualche volta le recensioni. 
Quale classico della letteratura ha letto di recente per la prima volta?
Lettera al padre di Kafka.
Secondo lei, che tipo di scrittura oggi dimostra una particolare vitalità? 
Dipende da cosa si intende per vitalità. La vitalità commerciale purtroppo è inversamente proporzionale a quella creativa. Di recente vedo uscire cose molto belle e originali a fumetti.
Personalmente, quale genere di lettura Le procura piacere ultimamente? 
Ultimamente ho bisogno di rifugiarmi con una certa frequenza nei classici, anche di genere. Al momento sto percorrendo una riscoperta di alcuni autori del giallo come Chesterton, Van Dine, Ellery Queen.
L'ultimo libro che l'ha fatta sorridere/ridere? 
Ho riso da solo per dieci minuti, leggendo un racconto di Pontiggia dal suo Vite di uomini non illustri, qualche settimana fa. Era uno scrittore straordinario dotato di una potente e, a tratti, feroce ironia.
L'ultimo libro che l'ha fatta commuovere/piangere? 
La notte alle mie spalle di Giampaolo Simi. Parla di paternità, un argomento che mi coinvolge e mi tocca nel profondo.
L'ultimo libro che l'ha fatta arrabbiare? 
Non posso dire né titolo né autore perché si tratta di un mio caro amico. È un giallo pieno di stereotipi che tenta di rendere originale con invenzioni linguistiche/stilistiche del tutto fuori luogo, inutili e irritanti. 
Quale versione cinematografica di un libro l'ha soddisfatta e quale no?
Arancia Meccanica sicuramente migliore del libro. La casa degli spiriti insopportabile.
Quale libro sorprenderebbe i suoi amici se lo trovassero nella sua biblioteca?
I miei amici ormai non si sorprendono più di nulla che mi riguardi. Forse un libro di Fabio Volo.
Qual è il suo protagonista preferito in assoluto? e l'antagonista?
Il protagonista migliore Alan Wolf della pentalogia di Los Angeles di Sergio Altieri. Il migliore antagonista probabilmente Hannibal Lecter in Red Dragon.
Lei organizza una cena: quali scrittori, vivi o defunti, inviterebbe? 
Tra i vivi sicuramente Raul Montanari, Andrea Carraro, Massimo Carlotto, Joe Lansdale. Tra i defunti Giuseppe Pontiggia, Franz Kafka, Sergio Altieri, Andrea G. Pinketts. 
Ricorda l'ultimo libro che non è riuscito a finire? 
Resistere non serve a niente di Walter Siti. Grande rispetto per lui ma dopo due tentativi devo accettare il fatto che non sia un autore nelle mie corde.
Quale scrittore vorrebbe come autore della sua biografia? 
Un autore comico qualsiasi. La vita è una farsa, meglio che a raccontarla sia un esperto in materia.
Che cosa c'è di Romano De Marco ne "Il cacciatore di anime"?
L’onestà nei confronti dei lettori, il lavoro sulla scrittura, l’amore per Peccioli, il paese straordinario nel quale è ambientato.
Ne  "Il cacciatore di anime" c'è un passaggio, una parte che lo potrebbe riassumere nella sua essenza?
No. Il thriller è un tipo di narrativa che si compone di tanti piccoli ingranaggi, meccanismi indispensabili alla riuscita dell’opera nel suo complesso ma che presi singolarmente faticano a esprimere un senso compiuto. Giovanni Zambito.


IL LIBRO
Angelo Crespi è uno dei maggiori esperti italiani di serial killer. Ne ha catturati tre, grazie alla capacità di entrare nelle loro menti e anticiparne le azioni criminali. La sua è stata una carriera straordinaria, fino a quel giorno maledetto. Il giorno in cui ha dovuto pagare un prezzo troppo alto per chiunque. Quando il dolore è impossibile da sopportare, l’unica alternativa al suicidio è scomparire dalla faccia della terra. Addio al lavoro, ai legami, persino alla propria identità. Con un nuovo nome, da oltre vent’anni, Crespi vive un’esistenza diversa, cercando di venire a patti con i fantasmi del passato. Ha trovato rifugio in un paese defilato, avvolto nella placida atmosfera delle colline toscane, in provincia di Pisa. Peccioli sembra la meta ideale per il suo buen retiro, fino a quando anche in quel luogo ameno qualcuno inizia a uccidere. Delitti rituali, spietati, legati al patrimonio artistico cittadino. L’uomo chiamato a indagare è il capitano Mauro Rambaldi del reparto operativo dei Carabinieri. Un uomo d’azione, pragmatico, un investigatore di talento. Ma quando la sua indagine si rivela più complessa del previsto, Rambaldi non può fare a meno di chiedere a Crespi di gettarsi ancora una volta nella mischia per aiutarlo a catturare l’assassino. Per il cacciatore di anime, dunque, si profila una nuova sfida… e stavolta potrebbe essere l’ultima.
Romano De Marco ci porta per mano nel buio più profondo delle nostre anime, e forgia una gabbia che non lascia scampo al lettore in un nuovo thriller teso e agghiacciante.
Casa editrice: Piemme  Pagine: 352
 Prezzo:  17,50 
Data di uscita: 9 giugno 2020

L'AUTORE
Romano De Marco. Classe 1965, è dirigente responsabile della sicurezza di uno dei maggiori gruppi bancari italiani. Esordisce nel 2009 nel Giallo Mondadori con Ferro e fuoco, cui fanno seguito Milano a mano armata (Foschi, Premio Lomellina in Giallo 2012) e A casa del diavolo (Fanucci). Per Feltrinelli scrive Io la troverò, Città di polvere e Morte di Luna. I suoi racconti sono apparsi su giornali e riviste, tra cui «Linus» e il «Corriere della sera», e su oltre 20 antologie. Per Piemme ha pubblicato L’uomo di casa (Premio dei lettori Scerbanenco 2017), Se la notte ti cerca (Premio Fedeli 2018) e Nero a Milano (Premio dei lettori Scerbanenco 2019). Alcuni dei suoi romanzi sono tradotti all’estero. www.romanodemarco.it

Cavalieri dell’Arcobaleno 2020

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di Franco PresicciMartina Francaè un grosso borgo dove si ammira il più bel barocco pugliese; diverso da quello di Lecce; organico, di forte struttura… Il disegno per il Palazzo Ducale è stato attribuito al Bernini, e sarebbe l’unica impronta lasciata da lui in tutto il Sud…”, scriveva nel ’57 nel suo “Viaggio in ItaliaGuido Piovene.

E continuava parlando dei trulli con il tetto a cappuccio o, come diceva lui, a cupola conica e altri a cono di gelato. Gli rubo un’altra frase: “Siano quelle case a cono, sia quella vita patriarcale, modesta e dolce, mi è parso che le case, gli uomini e le stesse campagne si fossero messe d’accordo per esemplificare un’idea della mente. Intorno ad ogni abitazione la terra, splendidamente cesellata: gli ortaggi, un po’ di grano, la vigna, gli alberi da frutto, i ciuffi delle erbe aromatiche, i fiori di decorazione. Una fantasia di Rousseau tradotta in ambiente cattolico”.

Parlava anche delle conversazioni degli uomini: intelligenti, a volte urlate, introducendosi in quasi tutti gli aspetti della città, adorata dall’indigeno e dal forestiero. “Salute Valle d’Itria/ dolcissima mia valle/ di te mi sono portato come in sogno/ i canti che ho sentito da bambino/ Quei canti che sbocciavano da terra/ odorosi di sole e di fatica…” (versi di Sante Ancona).

Piovene non si soffermò ad ascoltare le tante voci dei poeti di Martina. Poeti veri, delicati, profondi. Come, per esempio, Cinzia Castellana, che trasferisce sul foglio le proprie emozioni e sa anche interpretarle in modo coinvolgente. La ritroviamo nel volume “Cavalieri dell’Arcobaleno 2020“, nato dalla passione e dall’impegno di un’altra amabile poetessa, Teresa Gentile, animatrice del Salotto culturale di  Palazzo Recupero, che un po’ ricorda l’ottocentesco salotto milanese della contessa Clara Maffei, e ci fa godere il “Soliloquio di un lampione”: “Nacqui su carta bianca/ dal tocco leggero/ di mano d’artista/ e nella vivida fiamma/ della fucina di un fabbro/ le mie forme forgiate,/ plasmate,/ al ritmo del maglio/ che risuonava sull’incudine…”. Cinzia Castellanaè anche attrice dalle ammirevoli qualità, cacciatrice di tradizioni locali; instancabile, appassionata, fertile nella scrittura, colta, insensibile al fascino di ogni modello. Sempre molto belle le sue opere non solo in lingua ma anche in dialetto, ricco di suoni, di armonie, di onomatopee. La sua intensa attività poetica tocca tutti i temi, ispirata a volte da una profonda religiosità.

Passando da una pagina all’altra di questa antologia incrocio altri nomi conosciuti ed egregi, come Giovanni Nardelli, fresco, brioso, gustoso, che in una sua composizione esalta quella terra benedetta da Dio, che è la Valle d’Itria, di cui Giuseppe Giacovazzo nel suo libro “Puglia. Il suo cuore”, scriveva: “Le terrazze di ulivi che scendono in Valle d’Itria trattengono la poca terra orlata da un infinito ricamo di muri a secco”. Leggo dunque questi versi di Giovanni Nardelli, tradotti in lingua dal martinese: “Un mantello tutto stellato/ è caduto nella vallata/ ha coperto tre paesi/ che vicini si sono messi/ Ha portato bianchi trulli a mamme povere/ e con una vigna e tanta forza/ anche gli uomini ha accontentato./ Dei bambini non si è dimenticato/ e col sole li ha baciati…”.

Nardelli scrive anche canzoni gioiose, che ha raccolto in alcuni cd. I suoi temi sono lo splendore di Martina, i trulli, la cucina, la campagna con le sue viti inginocchiate, come le definiva il poeta e critico d’arte (“Epoca”, “Corriere della Sera”) Raffaele Carrieri, tarantino, a cui Mondadori ha dedicato un Oscar. Una sera, tornando in auto dalla masseria “Il cappotto” di Laterza, Giovanni, che non può certo essere considerato uomo schivo e solitario, interpretò una poesia, intrisa di ironia arguta, dedicata alle polpette preparate dalla moglie. Presenti il professor Francesco Lenocie Benvenuto Messia.

Benvenuto Messia, appunto. Nelle pagine di questa silloge così ricca anche di fotografie, così preziosa, non poteva mancare la sua poesia in dialetto, briosa, brillante, spumeggiante, capace di sollevare lo spirito, anche quando gli baluginano idee che dalla penna di un altro uscirebbero tristi e malinconiche: testimone il suo ritratto del destino dei nonni, richiesti quando servono e abbandonati quando non servono. Messia è un mattatore: bravo in ogni ruolo (anche in quello del prete con Lino Banfi); e quando recita i suoi versi strappa risate a pioggia, abile com’è anche ad inserire improvvisazioni magari per uno spettatore giunto in ritardo, mentre lui si esibisce, oltre che con le parole, con una gestualità ritmica, pause, cadenze più che efficaci.

A volte si ha l’impressione che la poesia per lui sia un gioco. È autentico, ha una “vis” comica travolgente. È un giovanotto di ottantasei anni che tiene banco senza mai traboccare. Amante della bici, continua a correre nonostante l’età; ad attraversare correndo il reticolo di strade, stradine, piazze, vicoli, “’nchiostre” della sua Martina. Ed è pedalando che forse fiorisce la sua arte. Quando a Martina passa il Giro d’Italia, gli si accoda, ma non per sentirsi un asso del ciclismo. Lo conobbi tanti anni fa nel trullo del maestro Oronzo Carbotti, dalle parti della via per Locorotondo. E in quelle “casedde” apprezzai per la prima volta la sua “verve”. Declinò tra le altre una poesia sull’uomo incoronato, categoria di cui il mondo è ricco; e risi tanto che rientrando a casa avevo la smorfia stampata sul viso. Benvenuto, tra l’altro maestro della fotografia, sembra nato sul palcoscenico e cresciuto sulla sella.

In “Cavalieri dell’Arcobaleno 2020” non scorrono soltanto poeti come Silvia Caramia, che nel suo “Giardino del melograno” a Martina, suona il piano e allestisce serate culturali. Troviamo: il musicista Franco Speciale; il cantante Gianni Nasti; l’attore Antonio Felice, che recita le poesie di Totò; la regista Antonella Conserva; la docente Pina Chirulli, che invita in classe poeti e narratori dialettali per fare gustare agli alunni le modulazioni fonetiche del loro dialetto; Anna Maria Gerlone con le sue porcellane; Angela Barratta con il suo mirabile ritratto di Teresa Gentile accanto a suo marito, scomparso prematuramente; oltre al poeta Giovanni Monopoli che ama il vernacolo tarantino. Il libro contiene anche le biografie, succose, dei vari autori, tutti del vivaio di Teresa Gentile, che ha dedicato questa corposa antologia al marito, professor Raffaele Cofano, un gentiluomo, che è stato una colonna portante del Salotto culturale di Palazzo Recupero. Qualche anno fa ho avuto l’onore e il piacere di conoscerlo nella sua villa sul Chiancaro, colpito dalla sua ospitalità, dalla sua curiosità sulla Martina che ho vissuto io nella campagna dello zio prete, quando avevo soltanto una dozzina d’anni e venivo da Taranto, che allora aveva sogni e speranze. 

Nelle ultime pagine di questo “Scrigno di emozioni”, incontriamo anche due Patriae Decus di Martina Franca: il preside Michele Pizzigallo, storico di chiara fama, e il professor Francesco Lenoci, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, autore di 35 libri di economia e conferenziere viaggiatore, oltre che amante del vernacolo e curioso di tutti i valori del nostro Paese (la moda, la ceramica, l’enogastronomia… che descrive con maestria, con passione ammirevoli). Il professore è presente con alcune sue “Lectio Magistralis” tenute in diverse città italiane: da Veronaa Milano, a Taranto durante una mostra fotografica di Cataldo Albano al Castello Sforzesco; al “Giardino del Melograno” di Martina. Nel dicembre del 2003 è stato relatore all’Angelicum di via della Moscova a Milano; correlatori Giuseppe Giacovazzo, padre Eligio, Giuseppe De Tomaso, il noto e stimato imprenditore Dino Abbascià, dinamico, intelligente, schietto, generoso. Quella sera Al Bano Carrisi cantò alcuni dei suoi successi in un teatro strapieno nonostante la pioggia battente. Nel 2019, lo ritroviamo relatore nella tenuta dello stesso Al Bano a Cellino San Marco, dove ha reso omaggio a suo padre: don Carmelo Carrisi. Sempre lo scorso anno, relatore all’inaugurazione della mostra “Città Silenti” di Michele Volpicella a Materapresso la Fondazione Sassi. Francesco Lenoci, i cui interventi sono apprezzati ovunque, è ormai un personaggio.

Quanti talenti in Puglia, oltre alle sue bellezze – ha detto da qualche parte lo stesso docente. Aggiungendo che se si vuol conoscere bene la Puglia, se la si vuole capire, bisogna farsi forestiero, guardarla con gli occhi di quelli che vengono da lontano. Si capirà perché si fermano a contemplare i paesi, le chiese, i castelli, i due mari di Taranto, il Grande e il Piccolo (“‘u peccerìdde” per il poeta Alfredo Lucifero Petrosillo, che scrisse “’U travàgghie d’u màre”), sposati dal canale navigabile. Si ritroveranno i gesti che si credevano perduti, umanità e bellezza, eleganza e fantasia”. E ascoltando le voci dei poeti, innamorati del luogo in cui sono nati, orgogliosi delle loro origini, si potrà intendere l’anima dellaPuglia.
                                                                                                           

#Coriandoli: JANE MANSFIELD, LA BOMBA SEXY DAL CERVELLO DI UN GENIO

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di Daniela Musini La sua circonferenza toracica misurava 107 cm (12 cm più di quella di Sophia Loren), il suo quoziente intellettivo era di 162 punti (uno più di Einstein), parlava 5 lingue, suonava (benissimo) violino e pianoforte, fu madre (affettuosissima) di 5 figli, ebbe uno stuolo di amanti e fece una fine orribile.

Tutto questo fu Jane Mansfield, la prorompente e polposa attrice di origine anglo-tedesca che i produttori di Hollywood lanciarono come rivale di Marlyn Monroe, della quale non prenderà mai il posto, ma della quale condivise la rigogliosa fisicità e il destino tragico.Vera Jane Palmer (questo il vero nome) nacque il 19 Aprile 1933 in una piccola cittadina della Pennsylvania, negli States, e la sua infanzia fu segnata dalla morte improvvisa del padre quando aveva appena tre anni e dalla precocità della sua intelligenza che le fece apprendere con facilità lo studio del violino, tanto che a sette anni si esibiva come piccola artista di strada.

Fu precoce in tutto: nelle velleità, nel desiderio spasmodico di piacere, nell’ambizione sfrenata di raggiungere la fama ad ogni costo e nella voglia di metter su famiglia. A 17 anni sposò Paul Mansfield (di cui conserverà il cognome per sempre) dal quale ebbe una figlia (gli altri quattro li avrà dai successivi mariti), si trasferì ad Austin e si iscrisse contemporaneamente all’Università del Texas a studiare Fisica e al Dallas Institute of the Performing Arts dove seguì le lezioni di recitazione di Baruch Lumet, il padre del futuro regista Sidney.

Non fu mai un’attrice eccelsa, diciamocelo, ma la sua interpretazione a Teatro in “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller piacque e nel 1956 vinse addirittura il Theatre World Award. Ma lei ambiva alla carriera cinematografica e a diventare famosa, a qualunque costo.
A 15 anni aveva chiamato il centralino della Paramount e alla centralinista che le chiedeva cosa desiderasse, aveva candidamente risposto: «Diventare una star».

Lo diventerà, sfruttando la sua giunonica carnalità e il suo sfrontato opportunismo.
Eccola allora sul podio dei più famosi concorsi di bellezza del tempo, eccola rifulgere sulle pagine di Playboy (che vendette per l’occasione milioni di copie), eccola, nel corso della sua (breve) vita diventare di volta in volta amante di produttori, magnati e personaggi celebri: da John e BobKennedy (eh già, anche lei come Marilyn) a John Wayne, da Tony Curtis a Dean Martin, da Robert Wagner a Burt Reynolds.

Ed eccola finalmente firmare il contratto con la 20th Century Fox e partecipare a pellicole accanto a Joan Collins e Cary Grant; nel 1958 avrebbe dovuto girare un film da protagonista insieme a James Stewart, il delizioso “Una strega in Paradiso”, ma era incinta e la parte andò a Kim Novak.
Già, perché nel frattempo si era legata a Mickey Hargitay, un culturista ungherese, già Mister Universo 1955, con il quale prese parte a film non memorabili, concepì 3 figli e si esibì in spettacoli erotici in nightclub e locali di dubbia moralità.

La sua smania di celebrità a qualunque costo la convinse ad accettare di apparire completamente nuda nel film “Promises! Promises!” che ebbe un grande successo commerciale e le fece guadagnare centinaia di copertine di giornali. La sua attitudine agli “incidenti” osé in cui, guarda caso, la spallina dell’abito scendeva improvvisamente e il seno appariva nella sua sontuosa prorompenza, o la gonna si alzava per colpa del vento rivelando la mancanza di biancheria intima, le procurarono una pubblicità eccezionale sì, ma anche critiche feroci, tanto che il suo stilista Richard Blackwell, disegnatore di moda anche di Jane Russell e di Nancy Reagan, si rifiutò ad un certo punto di affidarle le sue creazioni e la espunse dalla lista delle sue clienti famose. Ma lei se ne infischiava allegramente.

A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta fu la Diva più paparazzata dopo Marilyn e Liz e a lei questo importava: il successo, gli autografi, il traffico impazzito quando lei ancheggiava per strada con una tigre dipinta di azzurro al guinzaglio, la bramosia degli uomini, le copertine dei giornali. Tutto questo costituiva la sua droga. Quella vera sarebbe arrivata più tardi. Insieme al marito culturista aveva acquistato una villa da 40 stanze a Beverly Hills, ribattezzata “Pink Palace” dove tutto era stucchevolmente rosa, con vasca da bagno e piscina a forma di cuore e piccoli cupidi che scagliavano frecce fluorescenti color rosa. Qui accoglieva i fotografi indossando vestaglie trasparenti di chiffon (con la biancheria intima ridotta al minimo) e sdraiata su pelli di leopardo.

Lei, intelligente al limite della genialità, che leggeva (di nascosto per non intaccare la sua fama di oca giuliva che le aveva appioppato lo star-system) Shakespeare e Dostoevskji, rispondeva alle domande dei giornalisti cinguettando frasi tipo «mi lavo esclusivamente con champagne rosé e mi asciugo indossando pellicce di visone selvaggio».

Anche la nostra Oriana Fallaci andò a trovarla e sulle pagine dell’Europeo scrisse un articolo memorabile definendola «la ragazza più simpatica, più sincera e più incompresa d’America», non cadendo nel tranello dell’immagine della svampita tutta curve. Ma tutto ha un prezzo. Divorzia da Nargitay e sposa Matt Climber dal quale ha il suo quinto figlio, ma il matrimonio naufraga presto. Si unisce all’avvocato che le cura il divorzio, Sam Brody, che per lei aveva lasciato moglie (malata) e due figli, ma questi era un debosciato nullafacente che la inizia alle droghe (LSD soprattutto), sperpera al gioco i guadagni di lei e compra Rolls-Royce con assegni a vuoto.

Di più: la inizia al satanismo e insieme diventano seguaci di un guru della setta di Charles Manson (quello, per intenderci, che nel 1968 truciderà l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polanski).
Per Jane è una deriva senza scampo, che culmina con l’arresto nell’ospedale dove si era recata a visitare uno dei suoi figli colà ricoverato: strafatta com’era, aveva cominciato a spogliarsi in corsia.
La sua carriera cinematografica declina impietosamente: a Hollywood le chiudono le porte in faccia e finisce in Italia a girare film con Franco e Ciccio.

Non solo: si riduce a fare serate in strip-club in cui si esibisce in abiti succinti come cantante e “barzellettiera” di storielle piccanti per la gioia di un pubblico rumoroso e sguaiato, portandosi appresso sempre i figli che lascia a dormire in camerino, perché il senso materno ce l’aveva.
Sì, ce l’aveva, e non era finzione. Almeno quello. Una volta che l’avevano chiamata ad inaugurare una catena di macellerie, oltre al cachet, s’era portata a casa 500 dollari di hamburger per i suoi bambini. «Ne vanno matti», aveva aggiunto con la sua radiosità disarmante.

Tre dei suoi bambini, Milós, Zoltán e Mariska, erano in quella maledetta Buick Electra blu che il 28 Giugno 1967, alle 2,25 di notte, percorreva a forte velocità la Highway 90 diretta a New Orleans.
Avevano ripreso il viaggio dopo essersi fermati a mangiare un boccone ad un ristorante sulla strada e lì, ad una donna che l’aveva approcciata timidamente chiedendole se fosse davvero Jane Mansfield, aveva risposto sfoderando uno dei suoi leggendari sorrisi: «the one and only» (la sola e l’unica), ma poi aveva pianto in bagno, col trucco che le colava sulle guance.

Dopodiché aveva sistemato amorevolmente sul sedile posteriore i suoi piccoli, che si sarebbero addormentati subito dopo, e si era accomodata sul sedile anteriore con in braccio i suoi amati chihuahua Momsicle e Popsicle, accanto a Sam il suo amante e a Ronnie, il ventenne che lei aveva abbordato in un locale a cui aveva chiesto di fare da autista (e lui eccitato, frastornato e assolutamente inesperto di lunghi viaggi, aveva detto sì). Lo schianto contro un camion (che aveva inchiodato a sua volta per non tamponare un piccolo trattore che stava spruzzando disinfettante contro le zanzare) fu violentissimo.

Morì Ronnie il giovane autista, morì Sam l’avvocato debosciato, e morì lei, Jane Mansfield, la bomba sexy dal cervello di un genio. Morì di una morte orribile: decapitata. Aveva da poco compiuto 34 anni. L’orrore che si presentò ai soccorritori fu tale che qualcuno svenne, qualcun altro vomitò. I tre bambini si salvarono: un miracolo, che altro? Feriti, sì, segnati per sempre da quella sconvolgente esperienza e dalla morte tragica della loro mamma, ma salvi. E la piccola Mariska Hargitay che in quel 1967 aveva tre anni, ora è diventata un'attrice affermata da 12 milioni di dollari a cachet, beniamina di una delle serie TV americane più seguite, vincitrice di Golden Globe e Emmy Award: è lei, infatti la detective Olivia Benson di “Law & Oder- Unità vittime speciali” che interpreta dal 1999. Ha lo stesso sorriso della sua bellissima e sfortunata mamma, ma per fortuna non la sua dannazione.



Federico Vergari racconta un mondo di vittorie macchiate, imperfette e per questo ancora più belle. L'intervista di Fattitaliani

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Con la prefazione di Sandro Fioravanti dall'11 giugno arriva in libreria VITTORIE IMPERFETTE Storie di donne e uomini che non si sono arresi di Federico Vergari: venti brevi storie di donne e uomini che non si sono mai arresi davanti a nulla e che si sono rimboccati le maniche e sono ripartiti. Da Marco Pantani ad Assunta Legnante, da Michael Jordan a Tazio Nuvolari, passando per Novak Djokovic, Alex Zanardi e Federica Pellegrini. L'intervista di Fattitaliani.



Quando e perché è nata l'idea di questa particolare "raccolta di vite"?
Ero in giro per l’Italia con Giovanni Di Giorgi per la promozione del mio precedente libro (Le sfide dei Campioni - Tunué) quando abbiamo iniziato a ragionare su nuove storie e nuove chiavi di lettura e scrittura sportiva. Non c’era ancora l’idea di un nuovo libro, ma subito ci siamo accorti che il nostro confronto accendeva delle luci ben precise. Lo faceva puntando i fari su personaggi dello sport che avevano conosciuto momenti altissimi ma al tempo stesso anche fragorose cadute. Jordan che si ritira, Lomu che si ammala, Assunta Legnante che perde la vista all’apice della carriera, Alex Zanardi che si reinventa in altri sport, il calcio femminile che faticosamente entra nelle nostre case e fa record di ascolti in tv. Ci siamo accorti che c’era un mondo di vittorie macchiate, imperfette e per questo ancora più belle. E che questo mondo meritava di essere raccontato in una raccolta.
Selezionarne 20 è stato facile? l'ultima scrematura con quale criterio è stata fatta?
In realtà è avvenuto l’opposto… Il libro è stato pensato per 15 storie. Durante i lavori ci siamo accorti che la “shortlist” non riusciva a scendere sotto le 20 storie e così l’editore ha deciso di darmi fiducia e di aumentare la foliazione del libro per non costringermi a fare tagli. Un bell’attestato di stima e un investimento che spero aver ripagato.

Nella redazione delle venti biografie c'è uno schema ricorrente che accomuna i protagonisti?
L’imperfezione e la voglia di non arrendersi è il comune denominatore di ogni storia. Ma a volte dobbiamo un po’ allargare le maglie del concetto di imperfezione. Penso alla Bartoli che non ha conosciuto personalmente cadute fragorose come magari altri protagonisti del libro, ma il sistema del quale è ingranaggio è imperfetto e si sta lottando per farlo emergere sempre di più donando al movimento del calcio femminile i giusti riconoscimenti. Quando invece parlo di voglia di non arrendersi penso ad esempio ad Assunta Legnante che poteva ritirarsi e farsi bastare la carriera che aveva avuto e invece dopo un primo - inevitabile - smarrimento decide che deve vincere tutto anche a livello paralimpico. E lo fa!
Fra le storie che racconti attraverso i personaggi scelti, ce n'è una che ti ha più coinvolto emotivamente?
Ce ne sono due. La prima è quella di Nuvolari, lo storico pilota che viene coattamente fermato nella sua attività dalla seconda guerra mondiale: un suo alter ego decide di iniziare la lotta partigiana sull’appennino tosco-emiliano adottando come nome di battaglia proprio “Nuvolari”. E poi c’è Pantani: L’intervista realizzata attraverso l’escamotage delle interviste impossibili è ambientata a metà anni novanta, quando ancora non è il Pirata e quando può ancora decidere se rialzarsi dopo l’ennesimo infortunio e diventare una leggenda o se vivere di ricordi appendendo qualche foto e un paio di maglie nel chiosco di piadine dei suoi. Per me lui è e resterà sempre un personaggio fondamentale per la mia crescita.

La lettura del libro in che cosa potrà giovare un adolescente, un giovane?
Non ho scritto questo libro pensando a un target strettamente adolescenziale, però ti confesso che mentre lo scrivevo mi rendevo conto di quanto fossero potenti ed educative queste storie. Credo che se un adolescente dovesse ritrovarsi tra le mani Vittorie imperfette potrebbe senza dubbio scoprire il valore della pazienza. L’attesa del proprio momento che prima o poi tornerà. Il valore educativo di una sconfitta o di una caduta. Ecco Vittorie imperfette spero che possa insegnare ai più giovani che il metodo, il lavoro duro e la pazienza possono realmente ripagare. E che il tempo è davvero un alleato. Anche quando sembra non passare mai. Giovanni Zambito.


VITTORIE IMPERFETTE Storie di donne e uomini che non si sono arresi di FEDERICO VERGARI
Con la Prefazione di Sandro Fioravanti
Casa editrice: LAB DFG  - Pagine: 256 Prezzo:  14,50 - Data di uscita: 11 giugno 2020
Vi ricordate la sigla del Giro d’Italia cantata da Pantani? Cosa avrebbe detto David Foster Wallace davanti alla finale di Wimbledon più bella della storia? Cosa unisce Charlie Brown a un telecronista inglese esperto di atletica? Cosa ha significato la seconda guerra mondiale per Tazio Nuvolari? Come si costruisce, abbattendo stereotipi e soffitti di cristallo, il movimento calcistico femminile? Cosa lega Federica Pellegrini con Alfonsina Strada, ma anche con Oriana Fallaci e Aung San Suu Kyi? Perché un’estate a Cesenatico sul finire degli anni 80 è diventata indimenticabile per cinque adolescenti? A queste (e a tante altre) domande risponde l’autore raccontando storie che attraverso lo sport mettono al centro del racconto cadute e risalite. Perché si scrive sport, ma si legge vita.

Venti brevi biografie, venti storie di donne e uomini che non si sono mai arresi davanti a nulla e che, anche quando sarebbe stato più facile mollare tutto, si sono rimboccati le maniche e sono ripartiti. La vita era in debito e loro le hanno presentato il conto. Da Marco Pantani ad Assunta Legnante, da Michael Jordan a Tazio Nuvolari, passando per Novak Djokovic, Alex Zanardi e Federica Pellegrini. Tra infortuni, guerre, conflitti interiori, lotte per l’emancipazione femminile e incidenti i protagonisti di questo libro hanno saputo trovare le motivazioni per riscrivere la propria esistenza sportiva e non solo.  
L’autore.
Federico Vergari (1981) è giornalista, scrive di sport, cultura, fumetti e attualità per la radio, la TV, la carta stampata e il web. Nel 2008 scrive con la casa editrice Tunué Politicomics, un saggio sul rapporto tra comunicazione politica e fumetti. Nel 2019, sempre con la Tunué, Le Sfide dei Campioni. Emozionanti imprese tra i grandi dello sport, vincitore del premio Messaggero dello Sport 2019.

VINCENZO CAPUA, dal 9 giugno in radio e in digitale il singolo del cantautore romano "WEEKEND"

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Da martedì 9 giugno in rotazione radiofonica e disponibile sulle piattaforme digitali WEEKEND, il nuovo singolo del cantautore romano VINCENZO CAPUA. Il brano è una ballad sincera ed immediata, prodotta da Davide Gobello con la supervisione artistica di Paolo Vallesi.

Vincenzo Capua è pubblicato da N.I.C. United la neonata etichetta della Nazionale Italiana Cantanti, pensata per dare spazio a giovani artisti di talento e distribuita da Believe Digital.

A proposito del singolo, il cantautore commenta: «Weekend è una canzone intensa ed a tratti malinconica, che racchiude le inquietudini e le paure che la vita ci mette di fronte, e che anche l’amore ci richiede continuamente di affrontare. - continua - I vuoti profondi del nostro “Io” che tentiamo di colmare con le sigarette o una bottiglia di Vodka, oppure con il trucco od una scarpa col tacco, quando poi la vera ancora di salvezza è ritrovarsi in un abbraccio, che scaccia via tutto, come una nuova boccata d’ossigeno, e che aspettiamo impazienti sperando che arrivi il prima possibile, proprio come il Weekend. - conclude - In questo brano mi sono avvicinato a delle sonorità per me nuove, grazie alla produzione di Davide Gobello, con cui mi sono trovato molto bene in studio, ed alla supervisione artistica di uno dei più grandi cantautori italiani, Paolo Vallesi».

Il videoè diretto da Federico Rapisarda e Francesco Galati«Il videoclip semplice e sincero racconta la quotidianità di una coppia. Girato tra le mura domestiche, vediamo la verità di una relazione. La clip parla inizialmente di alcuni momenti di crisi che si ripercuotono inevitabilmente nella stesura del testo. La voglia di riconquistare il rapporto darà forza all’autore di completare al meglio il suo brano. Il crescendo di musica ed emozioni porteranno alla realizzazione di entrambe le cose», affermano i registi.

Vincenzo Capua è un cantautore nato a Roma il 28/04/1989.
Ha partecipato al Festival di Castrocaro su Rai 1
E’ stato tra i protagonisti del programma EdicolaFiore di Rosario Fiorello.
Nell'Estate 2014 la sua canzone “E ci sei tu” viene inserita nella compilation nazionale Hit Mania Estate 2014.
Ha partecipato per diversi anni alla trasmissione “L’anno che verrà” del Capodanno di Rai 1, inclusa l’ultima edizione 2020 dove si è esibito cantando il suo brano “Il cielo resterà blu”, che è rimasto per diverse settimane tra i primi brani nelle classifiche digitali.
Molto apprezzato per le esibizioni live con la sua chitarra, ha aperto i concerti di artisti come Fabrizio MoroNek , Niccolò Fabi, suonando in lungo e in largo per la penisola anche in concerti personali.
Ha diversi singoli all’attivo e numerose collaborazioni. 
Il suo brano “Quando sarò bambino” è colonna sonora dell'omonimo film con Sergio Rubini presentato al Festival del cinema di Roma, per poi essere distribuito in tutti i cinema d'Italia.
Da qualche anno fa parte della Nazionale Italiana Cantanti
Anche Speaker radiofonico, conduce un programma musicale con ospiti ed esibizioni dal vivo.




RECmedia comunicazione e promozione

Germana Fabiano: Leggere significa entrare in un mondo che non ci appartiene e a cui finiremo per appartenere. L'intervista

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Ciao Germana, benvenuta e grazie per avere accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori? 
Grazie a voi di avermi invitata. Ai lettori vorrei presentarmi con un grazie per l’interesse che mi dedicano: leggere un’intervista, in fondo, è un gesto di grande attenzione. 
Qual è la tua formazione professionale e letteraria? Ci racconti il percorso che ti ha portato a svolgere quello che fai oggi?
Il percorso credo sia iniziato quando mia madre mi ha insegnato a leggere e ho capito che avevo in mano le chiavi di una serie infinita di mondi… poi, molto semplicemente, ho scritto il mio primo libro, ho stampato e corretto le bozze e l’ho buttato via. Temevo il confronto con la realtà, immagino: rifiuti, critiche, disillusioni. Mio marito lo ha recuperato dalla raccolta differenziata della carta e mi ha incoraggiato a spedirlo. Vederlo nelle librerie un anno dopo è stata una delle emozioni più belle che ricordi. Per quanto riguarda il mio lavoro di docente… ho studiato scienze politiche e mi sono specializzata in Tutela dei Diritti Umani a Palermo affiancando allo studio sia il volontariato che diversi tirocini per varie NGO. Al momento tengo corsi sulla politica europea dei diritti umani presso l’università di Tubinga.
Nel 2012 hai pubblicato una raccolta di racconti brevi dal titolo “Racconti Bonsai”edito da Robin edizioni. Ci racconti come nasce questo libro, dove è ambientato e di cosa narra? 
Mi trovavo su un treno che mi portava da Tubinga a Strasburgo. Dietro di me stava seduto un uomo che non vedevo e che parlava alle persone sedutegli accanto: «questo è il posto che ho prenotato, il numero 5, la mia valigia sta qui accanto alla Sua, stiamo partendo in orario mi pare, alla stazione di Strasburgo devo prendere il bus, magari ci andiamo insieme». Ero infastidita, non capivo perché sentisse il bisogno di dire tutto questo e non mi lasciasse leggere in pace. Al momento di scendere, mi sono accorta che era non vedente; ogni sua frase aveva avuto una ragione precisa e la mia pigrizia mentale non mi aveva fatto considerare questa possibilità. I racconti bonsai nascono così, sono racconti brevissimi caratterizzati da un capovolgimento della prospettiva iniziale, con ambienti e personaggi molto vari, dagli Apostoli a un fanatico dei videogiochi. Come tutte le storie, nascono da idee improvvise, da associazioni libere, da una immagine che cogli per strada. In questo caso, anche dalla voglia di giocare col lettore e sorprenderlo. Era necessario non scoprire le carte troppo presto e, in racconti lunghi una pagina, non è stato facile, ma devo ammettere che mi sono divertita un mondo sia a scriverli che a parlarne con i lettori. 
Ci parli delle tue opere e pubblicazioni? Quali sono, qual è stata l’ispirazione che li ha generati, quale il messaggio che vuoi lanciare a chi li leggerà? 
“Balarm”, il mio romanzo d`esordio,racconta le storie racchiuse nel cuore di una città splendida e terribile, metafora di un sud sempre in bilico tra luce e ombra; vi si intrecciano le vicende di poeti e venditori ambulanti, immigrati, disoccupati, ragazzini cresciuti per strada, preti di frontiera e anziane maestre, con sullo sfondo la voce insistente di Federico II, lo Stupor mundi, che pone domande a cui, dopo secoli, nessuno ancora è riuscito a rispondere. Come ha scritto la critica, Balarm“è il crogiolo dove vivono mille anime irrisolte”, una città raccontata “tra cronaca e visione”.La luna Contro” raccoglie tre lunghi racconti: nelle campagne siciliane dell’Ottocento, la vita di un villaggio è sconvolta dal male oscuro che viene dalla luna, nel periodo fascista, un puparo girovago oppone la sua fantasia alla crudeltà dei tempi e infine, ai giorni nostri, una città sepolta dalla immondizia e schiava della mafia si ribella e pianifica una vendetta feroce. Tre epoche diverse, tre luoghi sospesi nello spazio di una Sicilia immaginaria ma subito riconoscibile e tre stili differenti per ogni racconto. Il mio ultimo lavoro è la trilogia intitolata “Concerto Siciliano”. Il dono della profezia, i miti antichissimi che incarnano le nostre paure e i nostri desideri, la lotta impari contro forze troppo grandi per loro, segnano la vita delle tre donne protagoniste e sono il filo rosso che le collega attraverso il tempo. “L’ultimo Rais” ci porta sull’isola di Katria (nome immaginario che compendia le tre isole delle Egadi) dove la vita è scandita da ritmi arcaici, le tradizioni e le leggende hanno ancora un grande peso e dove il Rais appartiene da secoli alla stessa famiglia. Ma l’ultimo Rais, un gigante biondo «che sa di alghe, pesce, sale, pietre, reti» non ha eredi maschi e contro la volontà di tutti sarà una donna, sua nipote Eleonora, a prendere il suo posto perché “se la catena si spezza, la sventura colpirà Katria e la sua storia si fermerà”. Ma non è detto che la tonnara possa vivere in eterno; presto i pescherecci asiatici minacceranno la sopravvivenza dei pescatori isolani e la piccola isola diventerà suo malgrado il centro di un nuovo mondo, quando dovrà accogliere centinaia di disperati in fuga dalle guerre e dalla fame. Mi ha ispirato una visita alla tonnara-museo di Favignana dove un anziano tonnaroto fungeva da guida. Lì ho buttato giù le prime righe. Non si sa mai quando l’ombra di una possibile storia ti passa accanto, meglio avere sempre carta e penna a portata di mano! “Tra Scilla e Cariddi” propone un futuro in cui il ponte sullo Stretto, costruito per metà, è simbolo di un mondo che procede al contrario. Grazia, una donna in apparenza insignificante e che vive di espedienti, si oppone tenacemente alla sua costruzione, in un mondo cupo che è tornato indietro di decenni e dove tutto quello che prima appariva scontato non esiste più. Infine, con “Motya”, la narrazione si sposta indietro di circa duemila anni per raccontaregli ultimi giorni della piccola colonia fenicia dove un sacerdote fanatico e una umile tessitrice interpretano in modo opposto il volere degli dei. Sono cresciuta e vivo a pochissima distanza dalle rovine di Solunto e da tanto volevo far rivivere in un romanzo questo popolo affascinante ed enigmatico. “In nome di Dio e per mano del diavolo” racconta la storia di un boia vissuto nel medio Evo in Francia e indaga sul tormento di chi è costretto dagli eventi, dalle usanze, dalle credenze, ad agire contrariamente alla propria indole e alle proprie convinzioni. Piu che un romanzo storico è un romanzo sulla libertà individuale che non conosce frontiere di spazio e di tempo. 
Mi colpì una frase su una rivista di storia: descriveva il dolore del boia della Rivoluzione francese, Sanson. Pare piangesse ad ogni testa che rotolava…. Il personaggio di Laurent Deville, con i suoi dubbi, i suoi tormenti e la sua difficilissima ricerca della libertà, è nato da quella immagine. Alla sua epoca, quello del boia era un mestiere che si ereditava, non si poteva scegliere una via diversa. Anche la dicotomia di questa figura a margine mi appassiona: conoscendo l’anatomia, il boia era anche guaritore. La gente che di giorno lo evitava perché strumento di morte, di notte lo cercava perché alleviasse le sue sofferenze. Mantenere l’equilibrio non doveva essere facile.
Mi chiedi che messaggio voglia lanciare… direi che non ho l’ambizione di lanciare un messaggio, solamente quella di scrivere storie. Succede però che i lettori e i critici scovino tra le righe significati che io non avevo notato e mi accorgo allora che nascono dalla stessa storia, dagli stessi personaggi e, meravigliosamente, dai lettori stessi. 
Come nasce la tua passione per la scrittura? Ci racconti come hai iniziato e quando hai capito che amavi scrivere? 
Credo nella “teoria della ghianda” di James Hillman per la quale tutti noi veniamo al mondo con delle passioni e con la vocazione a realizzarle. Ciò che conta è riconoscerle e non dimenticarle strada facendo. Se vuoi, restare fedeli a quello che si ama. Io ho avuto la fortuna di avere una nonna un po` fuori dal comune che, quando ero piccola, trascorreva lunghissimi pomeriggi a raccontarmi non solamente fiabe e favole ma l’Odissea, l’Eneide e persino la Divina Commedia, e che mi ha trasmesso l’amore per il racconto. Uno dei personaggi del mio romanzo d’esordio, Balarm, è proprio lei. Ascoltandola, avevo la sensazione di partecipare a un rito magico, che i personaggi prendessero vita grazie alle parole e che farli vivere, prima o poi, sarebbe stato il mio compito. Poi, tutto questo è rimasto sepolto nella memoria fino a quando, senza una ragione precisa, delle frasi hanno cominciato a ripresentarsi alla mente, insistenti, sempre le stesse. Sono diventate l’incipit di Balarm, il mio romanzo d’esordio. Non so, mi piace credere che quella storia volesse essere raccontata e sia venuta a cercarmi 
Una domanda difficile Germana: perché i nostri lettori dovrebbero comprare i tuoi libri? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria a comprarne alcuni.
Per incuriosirvi… potrei offrirvi qualche immagine rubata a ognuno di loro. Balarm stava giocando, li spingeva nelle strade per un suo disegno segreto o forse solamente per vincere la noia e, quando ne avesse avuto voglia, li avrebbe di nuovo rinchiusi dietro le sue frontiere”. Balarm - Voci da una città in ostaggio - “Fu così che il nuovo esattore fu avvistato dai passanti fantasiosamente appeso ad un rachitico albero, con una mutandina di pizzo in bocca e un foglietto appuntato al taschino della sua giacca firmata con su scritto “Di pizzo pigliati questo”. La luna contro.“La campata svettava su acque verdi e stanche, mutilata nel suo slancio. Era la profezia di un progresso che aveva sbagliato tutti i suoi parametri, un braccio spezzato che suggeriva una meta al di là del mare e, allo stesso tempo, la negava.”Tra Scilla e Cariddi.“Per un attimo, ogni elemento si dispose come nella foto scattata da un genio: il cielo nero, il mare rabbioso, la sagoma minacciosa del castello che si stagliava contro le nuvole pronte ad esplodere. Poi si udì un tuono e un temporale spietato si rovesciò sull’isola avvolgendo di sé tutte le cose inspiegabili di quell’universo; il barcone che Nora vedeva oscillare all’orizzonte, carico di altri disperati, era una di queste”.L’ultimo Rais.“Mescal tesseva, come ogni donna tesseva sempre, tesseva come un ragno per catturare prede non ancora vicine, tesseva le fasce di un nascituro e il sudario di un moribondo, tesseva per raccogliere e per custodire, tesseva il mondo intero senza attendere il ritorno di nessuno, perché di nessuno aveva bisogno”.Motya.“Per la prima volta stava dall’altra parte del patibolo e infinite mani di assassini avevano preso il posto delle sue. Ma erano mani frenetiche e inesperte, compiaciute del dolore che arrecavano. Il boia le guardava uccidere, solo e distante nella propria innocenza”.In nome di Dio e per mano del diavolo. 
Considero l’arte un modo di interpretare e reinventare la realtà e anche, perché no, una maniera per sopravvivere a noi stessi. Penso che “il diletto” che se ne ha non sia mai vano, che l’arte non debba necessariamente avere una sua funzione sociale. Mi viene in mente la famosa scena del film Amadeus in cui si rappresenta uno scurrile Flauto Magico per un pubblico incolto e rumoroso, ma rapito dalla bellezza della musica e dalla magia della storia. Non so se Mozart avesse in mente di “preparar l’avvenire” di quelle persone, forse voleva semplicemente che si divertissero un paio d´ore… A mio parere, l’arte non dovrebbe avere altro fine che sé stessa; se poi rinnova, rivela, ispira, fortifica, ben venga. Ma se una cosa è bella, può anche essere perfettamente inutile. La sua utilità, a mio parere, sta semmai nel non lasciare che il nostro spirito inaridisca. Da qui, alla tua seconda domanda: tanti social vivono di arte e servono a diffonderla, temo però che la eccessiva quantità e velocità di testi, canzoni, immagini, stia sconvolgendo il nostro modo di apprezzare l’arte e comprenderla e, alla lunga, la stia avvilendo. Il rischio è che, per avere visibilità in un mondo che vive di clamore, si finisca per gridare sempre più forte per farsi sentire dimenticando lo spessore, la qualità. Per citare un libro che amo: non dicono niente, ma come lo dicono forte (Fahrenheit 451).
È noto che il concetto del bello cambia a seconda dei tempi, delle culture, dei luoghi. Credo che ognuno di noi si riferisca a qualcosa di diverso quando parla di bellezza, dipende anche dal modo in cui si è stati educati, dalle esperienze vissute. La bellezza salverà il mondo, di certo, ma se non limitiamo il concetto di bello all’arte perché non è affatto scontato che ci renda migliori. Artisti eccelsi sono stati criminali, assassini, truffatori, depravati, e non dimentichiamo che i gerarchi nazisti nei lager ascoltavano commossi Wagner e Beethoven mentre mandavano a morte milioni di innocenti. 
Esiste oggi secondo te una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura dell'antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi Novecento? 
Secondo me, quelle che nomini sono discipline che educano a un certo gusto, cercando di trovare dei parametri validi per il maggior numero di persone in un determinato contesto. Come docente, lavoro con studenti che vengono da paesi diversissimi, dalla Cina agli USA, dalla Siria alla Nuova Zelanda, e noto che le differenze culturali sono enormi anche in questo mondo globalizzato e che i concetti di bello e di giustosono estremamente variabili. Collegando queste riflessioni, per me la disciplina che educa alla vera bellezza è un’etica condivisa, quella che gli addetti ai lavori chiamano nuova etica dei diritti umani, sulla quale forse sarà possibile un giorno trovare un consenso universale.
Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, a proposito dell’arte dello scrivere diceva:«Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski?
Amo molto queste parole di Bukowski perché mi trovo perfettamente d’accordo con lui: una storia la racconti come meglio puoi, la butti giù, vedi se funziona. Punto. A mio parere, conta più la storia: un libro non lo metti via se ti preme sapere cosa succede nella pagina seguente. Se è scritto magistralmente ma ti annoia, finirai per rinunciare, o per odiarlo. Se poi una bella storia è scritta bene, allora sai che è arte, e che sei in presenza di una specie di miracolo. 
«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto infra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Qual è la riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul mondo della lettura e sull’arte dello scrivere? 
Per me, leggere significa entrare in un mondo che non ci appartiene e a cui finiremo per appartenere. In questo mondo possiamo trovare solamente domande e nessuna risposta, o risposte a domande che non abbiamo posto. In nessuno dei casi restiamo passivi, ne usciremo cambiati o per lo meno porteremo con noi per un poco qualcosa di nuovo, anche nostro malgrado. Mi piacerebbe dirti che scrivere è vivere mille vite, esercitare un potere assoluto sul mondo che hai creato. E così è, per pochissimi, benedetti istanti. Per il resto del tempo, scrivere è fatica, disciplina, ricerca, liste di sinonimi e contrari, costruzione dei dialoghi, tagli, riscritture infinite, fogli appallottolati, dita che fanno male per chi, come me, fa le prime stesure a penna perché qualsiasi altra cosa è inimmaginabile. Lo scrittore, in fondo, è un’anima in pena.  
«La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali.»(Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Molti autori quando parlano di libri e di autori importanti, dicono che leggere un libro e come avere una conversazione con un grande uomo o donna della letteratura e della cultura. Proust sembra dire proprio il contrario. Tu cosa pensi in proposito? Cos’è leggere un romanzo, un racconto, un saggio secondo te? 
Penso ci sia una differenza enorme tra la lettura di un saggio e quella di un romanzo o racconto. Nel primo caso, ci si può immergere nella propria solitudine o avere la sensazione di conversare con l’autore, dipende molto da come è impostato il saggio. Leggendo un romanzo o un racconto, invece, sei dentro ogni personaggio, ti muovi in un universo nuovo, la storia che segui ti regala emozioni. Non parlerei di conversazione con l’autore, l’autore deve scomparire perché un libro funzioni. A meno che non sia scritto male…
Penso che la scrittura viva essenzialmente di solitudine e che basterebbe leggere attentamente On Writing, di Stephen King, per avere un’idea di cosa fare e di cosa non fare. Poi, dipende molto dalle aspettative e dagli obiettivi. Una libraia mi raccontava di un corso di scrittura tenuto nella sua libreria: i partecipanti sembravano tutti molto motivati e passavano ore a leggere e commentare i loro scritti, peccato che in dieci giorni a nessuno di loro sia venuto in mente di comprare un libro… Leggere come se non ci fosse un domani, rispolverare la grammatica (è incredibile cosa si sente e si legge oggigiorno) e studiare il vocabolario dei sinonimi e contrari mi sembra sufficiente, se si hanno talento e una buona storia da raccontare. Detto questo, immagino che le varie tecniche narrative possano essere apprese, almeno in linee generali, e che il talento, se c’è, possa essere affinato dall’esercizio continuo. Penso che un corso di scrittura, dati questi presupposti, possa anche essere utile, dipende da come è strutturato. Il problema, come ci ricordavi citando Bukowski, è che pochi accettano serenamente di non avere talento, l’unica cosa che non si può apprendere, e che pochi sono in grado di riconoscerlo, il talento. Oggi si tende a complimentarsi con chiunque per qualsiasi sciocchezza e questo crea aspettative enormi e altrettante enormi delusioni. 
Chi sono i tuoi modelli, i tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e che leggi ancora oggi? 
Mi piacciono stili differenti e mi piace vedere come plasmano la narrazione, dandole il ritmo giusto. Amo la magia di Garcia Marquez, la serpeggiante follia di Pirandello, l’incisività di Tabucchi, la prosa possente e a tratti ossessiva di Jaume Cabrè.  
Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri e tre autori da leggere nei prossimi mesi dicendoci il motivo della tua scelta. 
Uno Nessuno e Centomila di Luigi Pirandello perché rimette tutto in discussione, sempre. 1984 di George Orwell perché ancora oggi non ci permette di chiudere gli occhi davanti alla verità. Io confesso di Jaume Cabrè per la forza travolgente delle storie che vi si intrecciano. 
Ti andrebbe di consigliare ai nostri lettori tre film da vedere assolutamente? E perché secondo te proprio questi? 
Le vite degli altri di Florian Henckel, per ricordarci che la libertà non è mai scontata. La leggenda del pianista sull` oceano di Giuseppe Tornatore, perché è un film pieno di poesia e una originale metafora della vita. Leon di Luc Besson, semplicemente perché è bellissimo.
Quali sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi condividere con i nostri lettori? 
Le letture che avrei voluto tenere quest’anno sono state, ovviamente, tutte rimandate, ma è ancora presto per un nuovo calendario. Sto lavorando a qualcosa di nuovo ma ne so ancora troppo poco: scrivere una storia, in fin dei conti, è come cominciare un viaggio del quale ignori la destinazione finale. 
Dove potremo seguirti? 
Sulle pagine dei miei libri, se vorrete…  Troverete le novità relative ai miei romanzi e racconti anche su Facebook, sul mio sito e su Instagram. 
Come vuoi concludere questa chiacchierata?
Dal momento che abbiamo parlato di scrittura, chiuderei con una frase rubata al mioBalarm:«Niente esiste che non valga la pena di essere raccontatoe niente che non venga raccontato è mai esistito davvero».

Germana Fabiano
@germanafabiano

Andrea Giostra



Jarabe de Palo, Pau Dones morto a 53 anni

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Pau Dones il cantante del gruppo Jarabe De Palo è morto di cancro a 53 anni.
“Vogliamo ringraziare l’equipe medica e tutto il personale dell’Ospedale de la Vall di Hébron, l’ospedale  Sant Joan Despí Moisès Broggi, l’Istituto Catalano di Oncologia e tutti per il lavoro e la dedizione in tutto questo tempo. Chiediamo il massimo rispetto della privacy in questo momento difficile”, ha fatto sapere la famiglia in una nota.
Il cantante di “La Flaca” e “Depende” aveva detto solo qualche settimana fa di voler tornare alla musica e lo aveva fatto con un annuncio su YouTube: “Torno per incontrare la mia gente e restare per sempre qua. Torno, perché la musica è tornata di nuovo nella mia testa. Torno, perché è tempo di condividere ancora i nostri sentimenti, torno perché tornare su un palco è la sola cosa a cui penso, torno per essere quello che ho sempre voluto essere”.
Il musicista 53enne ha affrontato un tumore al colon e negli ultimi tempi era apparso dimagrito e indebolito dalla malattia. L’anno scorso la decisione di lasciare la band da lui stesso fondata, ma il ritorno sulle scene da solista non è mai avvenuto.

Jovanotti ha twittato: ho appena saputo della morte di Pau Dones, è una notizia tremenda, ci eravamo scritti 3 giorni fa e come al solito era lui a rassicurare me. Mi mancherai tantissimo amico e maestro Pau. Mi é difficile crederci 

“Distanziamento Sociale” diventa un film: 19 attori si “autoriprendono” sotto lockdown

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E’ disponibile sui social e sul web lo speciale ironico e divertente cortometraggio “Distanziamento Sociale” ideato dallo sceneggiatore e regista Francesco Malavenda con un cast di 19 interpreti di alto livello, Maurizio MattioliFrancesco TestiStefano Masciarelli, Gigi MiseferiCarmen Russo ed Enzo Paolo TurchiAntonio GiulianiEmy BergamoAlvaro VitaliCarmine FaracoAntonio Lo CascioAnna Rita Del PianoStefania CoronaClaudia ContePaola LaviniAndrea ParisGegiaFranco NeriGianluca Fubelli.

Prendendo spunto da quello che hanno fatto le orchestre in fase di lockdown il film è stato realizzato con il coinvolgimento degli attori che hanno interpretato la propria parte “autoriprendendosi” o facendosi riprendere con il proprio telefono cellulare ed inviandola poi al regista.
La trama è leggera per regalare momenti “spensierati” allo spettatore e tocca diversi argomenti un pò stravolti dalla condizione di “reclusione forzata” si va dal calcio all’amore, dagli esercizi fisici all’arte culinaria, dal giardinaggio ai tradimenti, ma il fil rouge che lega il tutto è l’amicizia (vera) tra gli attori che hanno saputo recitare un copione “simulando” di avere di fronte chi dava la controbattuta.
Ho voluto scrivere e realizzare questo film corto per dare un piccolo “segnale”, per far capire che “ci siamo anche noi”, quelli del cinema, non per far polemica, ma per dimostrare la voglia di tornare al più presto ad “aprire” un set!”, spiega Malavenda che tecnicamente si è avvalso della collaborazione “soltanto” di tre persone: Emiliano del Frate, montatore, Davide Granelli, dronista, e Tony De Simone per le musiche originali (Lebrel).
DISTANZIAMENTO SOCIALE TRAILER: https://youtu.be/UAso3VilRGU
DISTANZIAMENTO SOCIALE CORTO: https://youtu.be/2iU6WrpVFJo

IIC Bruxelles, Settimana del cinema italiano: FARE CINEMA 2020, online dal 15 al 21 giugno

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(link) In occasione della terza edizione di Fare Cinema, non mancate all'appuntamento al cinema dell'Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, in una nuova versione online!
Nella settimana del cinema italiano proietteremo ben due nuovi film presentati nei maggiori festival internazionali.

L'IIC Bruxelles propone inoltre la rassegna sul cinema italiano organizzata dal Ministero degli Affari Esteri, i cui contenuti originali saranno pubblicati sul nostro canale youtube.

Anima, mostra di Anna Maria De Luca e Massimo Centaro a cura di Stefano Cianti dall'11 giugno

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Con “Anima”, Stefano Cianti,  pittore e performer, inaugura l’11 giugno presso lo spazio espositivo “Libreria Aura” il suo progetto “Un Attimo d’Arte”:  due anni di iniziative culturali e mostre (sulla pagina Facebook “Spazio Un Attimo d’Arte”). Cianti ha scelto di aprire con la mostra degli artisti  Anna Maria De Luca e Massimo Centaro, diversi nelle tecniche e nelle storie ma accomunati dalla passione di dipingere l’invisibile.

Centaro inizia a dipingere nel 1976. Prima mostra a Siracusa, nella basilica dei Cordari, il 16 giugno 1980. “Fu l’imprinting della mia carriera artistica: era la mia prima personale. Il tema: il tempo. Tele scolpite da artigiani di piazza della Minerva, tondi, mezze lune, triangoli. Il passaggio del tempo incatenato alle fotografie presentate sulla città di Viribonia, abbandonata nel 609 per la peste. Un rifacimento della battaglia di Anghiari e la prima opera dipinta in accademia a Roma. Ore e ore di lavoro nascosto, sotto terra: non avevo uno studio,, dipingevo in un garage e dopo in una cantina, sotto terra. Tutta passione e furore. Le tecniche e le ricerche cromatiche si rincorrevano ma tutte destinate alla intraducibilità di un dolore e una gioia incomunicabili, centinaia di opere e mostre solo a testimoniare che Amor vincit omnia. La mia ricerca trova ora completezza nella ricerca di giovani talenti come Anna Maria De Luca, la pittrice multitasking (www.annamariadeluca.it). Atmosfere da brivido calcano un’anima creatrice. Nihil difficile volenti, grazie Anna Maria!”.
“Jung considera la psiche e la materia come aspetti di una “unità” non divisa, inaccessibile per via diretta,  in contatto permanente, supportate da fattori trascendenti incomprensibili. Nei miei quadri le pennellate sono materia e psiche, insieme, diluite in una racconto di trascendenza, sogno, desiderio. I miei quadri sono racconti di viaggi realmente vissuti, siano essi fisici o dell’anima (come giornalista ho avuto la fortuna di viaggiare moltissimo). Ringrazio molto Stefano Cianti e Massimo Centaro per l’opportunità di esporre nella galleria Aura, un luogo raccolto e intimo, perfetto per questi quadri, per me cosi intimi, che vengono esposti per la prima volta. Un filo sottile ci lega: Aura – Anima. Credo - commenta Anna Maria De Luca (www.annamariadeluca.it) - che niente avvenga a caso: questo potrebbe essere il primo passo di un percorso imprevedibile ma sicuramente bello da condividere insieme. Vi aspettiamo, dall’11 giugno all’11 luglio, a Ronciglione!”.

LA BAMBOLA COL TUPPO DI FRANCESCO TESTA, una storia di vicende aspre dolorose e imprevedibili, che si legge d’un fiato

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di Goffredo Palmerini - L’AQUILA - Non si era ancora attenuata l’eco compiaciuta per il suo ultimo romanzo, gratificato da diversi premi letterari e da vasti consensi tra i lettori, che già Francesco Testa ci intriga e sorprende con una nuova avventura letteraria, “La bambola col tuppo” (Graus Edizioni, Napoli, 2020).
Si tratta di un romanzo con una struttura narrativa dalle tinte dapprima delicate, ma che man mano si drammatizza in vicende di sempre più forte impatto emotivo, spinte talvolta in sospensioni thriller e noir. Non una storia, ma una densa congerie di più storie che si concatenano, dove l’elemento psicologico e il retroterra umano del protagonista e degli altri personaggi tratteggiano e motivano l’asprezza degli accadimenti. La narrazione si avvale d’una scrittura di rango elevato, qual è quella dell’autore, coinvolge e attrae con una sequenza di vicende ricche di colpi di scena, tali talvolta da far trattenere il fiato.

Non c’è alcun dubbio. Francesco Testa sa usare con rara perizia gli elementi psicologici che muovono il comportamento umano, specie quando s’immerge nel fango delle traviazioni più squallide e malsane. “La bambola col tuppo” rappresenta uno spaccato di vita vissuta di cui restituisce la profondità attraverso una prosa che non ha paura d’indignare o di sconvolgere, ma che, al tempo stesso, aborre ogni facile sensazionalismo. E’ un romanzo che riesce a raggiungere la perfetta fusione di forma e contenuto, trasmettendo messaggi eternamente validi.

Gli eventi s’alternano a riflessioni profonde, che spaziano dalla condizione dei diseredati all'insicurezza, dalla meschinità dell'uomo alla sua capacità di mettersi in discussione, dalla sua hybris al senso dell'amore e della vita, dalle vicende private a quelle della collettività. Sarà però meglio immergersi nella lettura del romanzo, nei meandri d’una storia forte di pathos e di situazioni imprevedibili, per assaporarne talvolta controverse emozioni. 

Eccone della storia alcuni brevi tratti. Ignazio Alfonso de Dura, significativo uomo dell’antica aristocrazia partenopea, in seguito a un'esperienza quasi mistica decide di mettere la propria ricchezza al servizio del bene comune. Il suo felice matrimonio con Beatrice è turbato dall'assenza di figli. A cambiare le cose l'incontro quasi casuale con Gennarino, un ragazzino orfano cresciuto da un lontano cugino della madre. I coniugi de Dura si affezionano al ragazzo, gracile e snello, si legano a lui fin quando non l’adotteranno, appena raggiunta la maggiore età, facendone il loro unico erede.

La vita, caratterizzata da un affetto familiare intenso, è però funestata da una serie di eventi spiacevoli: la rivelazione di elementi d’un passato ignoto e spaventoso, la malattia di Ignazio Alfonso prima e poi quella di Beatrice. Un susseguirsi di drammi che influiranno sullo sviluppo e sulla psiche di Gennarino. Il ragazzo, divenuto uomo, è intanto alla ricerca del suo posto nel mondo, diviso tra volontà di rivalsa verso le persone che egli ritiene immeritevoli di perdono e desiderio d’affermarsi, laureandosi in psicologia e percorrendo il cammino della professione. Un percorso che lo condurrà a lavorare in contesti diversissimi, ma assai formativi sul piano umano e professionale.

Attraverso l'esperienza nella famigerata Clinica della Morte, struttura fittizia che ricalca però realtà concrete spesso dimenticate, Gennarino si trova a mettere in dubbio la propria vocazione professionale, confrontandosi con persone ormai fuori di senno e abbandonate a se stesse. Lo tormenta inoltre l'ossessione di mettere al mondo un erede, per garantire continuità al suo casato. Non si fa scrupoli, quindi, di mettere incinte donne inconsapevoli, come la badante di sua madre, pagata per avere rapporti sessuali.

L'insieme di ansie, sensi di colpa e stress trasformano Gennarino in un vero e proprio lupo mannaro che ogni notte ulula la propria disperazione alla luna e al vicinato, correndo nudo e privo di raziocino nel giardino della sua villa. A salvarlo sarà un'infermiera, Luisa, donna più grande di lui e sua prima fidanzata, capace di curare le sue afflizioni e fornirgli un'occasione di riscatto, con un nuovo lavoro in un’esclusiva clinica della città.

L'amore per Luisa è la prima emozione sana che Gennarino prova, dopo un lungo periodo di tenebre. Tuttavia non basta a guarirlo dalle sue fissazioni, specie quando i due non riusciranno ad avere un figlio. Gennarino perderà la testa per una sua collega, donna dal passato traumatico e misterioso, apparentemente incapace di ricambiare appieno i suoi sentimenti. La sensualità quasi animalesca della donna, alternata a clausure monastiche, trasformerà l'infatuazione di Gennarino in un amore senza limiti, cieco a ogni stortura, tanto da portarlo ad una nuova perdizione.

La morte della madre in circostanze sospette, la conseguente indagine dei carabinieri al comando d’un luogotenente d'altri tempi, dotato di un finissimo intuito, dà una nuova scossa a Gennarino, portandolo a rimettere in discussione tutte le scelte prese. La conclusione delle sue vicende sarà emblematica: né lieto fine né tragedia, ma una vita con una prospettiva più cupa e malinconica, anche se più reale. La vita di Gennarino, le cui meschinità e gesti nobili si mischiano di continuo in un'individualità estremamente sfaccettata, è talvolta solida come una roccia ma al tempo stesso fragile come un vaso, con conseguenze poco immaginabili.

Francesco Testa, in questa nuova opera, rivela peraltro il desiderio d’innovare, di non ricalcare stereotipati sentieri narrativi che indulgano in un genere letterario confinato. L’autore si distacca da un qualunque genere, mettendo in campo una creatività che reinventa ed amalgama situazioni e tematiche, le più variegate, dal rosa al giallo al noir. Si trovano così brandelli di dramma romantico e di tragedia familiare, di critica sociale con le crude descrizioni nella Clinica della Morte, di thriller psicologico con l'incursione nell'interiorità dei personaggi, di giallo poliziesco con le indagini e i metodi eterodossi del luogotenente Canepa, infine di romanzo di formazione con la difficile ma costante crescita della personalità del protagonista. “La bambola col tuppo” è dunque un romanzo da leggere. Di certo scuote e non lascia indifferenti sulla frastagliata e tormentata diversità delle vicende umane.

***

Francesco Testa è nato ad Udine, vive e lavora a Napoli. Psicologo e psicoterapeuta, è laureato in Economia aziendale e in Sociologia con lode, H.C. di Doctor of Health Management Engeneering presso la Constantinian University (State di Rhode Island, USA). Top manager di primari gruppi industriali e Direttore Generale di aziende sanitarie e ospedaliere. Presidente dell’Azienda Soggiorno e Turismo di Paestum. Giornalista pubblicista e Revisore legale. Docente di Economia sanitaria. Insignito delle onorificenze dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (OMRI), di Cavaliere, Commendatore e Grand’Ufficiale. Per il suo impegno sociale a favore delle persone sofferenti o svantaggiate è stato anche insignito, dalla Città del Vaticano, delle onorificenze di Cavaliere e Commendatore dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. È accademico effettivo dell’Accademia Teatina per le Scienze e Academicum Ordinarium Nobilis Sanctae Theodorae Imperatris (USA). Tra le sue pubblicazioni si citano Qualità in Sanità – Strumenti e strategie di sistema (Edizioni G. Laterza, Bari, 2001); Controllo e programmazione delle aziende sanitarie (Edizioni G. Laterza, Bari, 2001); L’ignorante è schiavo (Graus, Napoli 2010). Nel 2015 inizia una intensa e proficua collaborazione con Giulia Fera, che porta alla pubblicazione dei romanzi Il canto nel vento. Un sentiero di crescita (Graus, Napoli, 2015), Aironi di carta (Graus, 2017), Veleni & Verità (Graus, 2018), Indelebile come un tatuaggio (Graus, 2019), La bambola con il tuppo (Graus, 2020).


Giovanni Mattaliano: Luz… dalla luce agli elementi della natura. Una speranza per la musica

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Il mondo della musica non si ferma, nonostante le misure restrittive attuate dal governo per far fronte all’emergenza Covid_19, Giovanni Mattaliano compositore, clarinettista, sassofonista e produttore artistico palermitano dà vita, proprio in questo periodo, a un nuovo progetto compositivo “Luz”, dedicato all’anima cubana, ideato per solo clarinetto o con aggiunta di percussioni ma adattato ad ogni tipo di strumento e formazione per il valore simbolico del brano stesso, esiste già infatti l’arrangiamento per orchestra o ensemble di clarinetti, per clarinetto e big band o per flauto solo, editi da SentirArt edizioni.

Una nuova ventata di speranza parte proprio dalla Sicilia e dal suo capoluogo per coinvolgere in un web tour, a partire dal 19 marzo 2020, diversi clarinettisti di fama internazionale. Grazie alla collaborazione con Angelo de Angelis (primo clarinetto dell’Opera di Roma che ne cura la prima assoluta), lo spagnolo Javier Llopis in duo con il percussionista cubano Juan Javier Rodriguez, il portoghese Rui Travasso, l’italo-Americano Giancarlo Bazzano, Sarah Watts dall’inghilterra, i sudamericani Axel Sanchez e Jairo Talaga, il russo Dmitriy Rybalko, i concertisti italiani Salvatore Spera, Kevin Spagnolo, Antonino Anzelmo, il giovane talento jazz Enrico Erriquez, Elisa Marchetti, Alfredo vena, Massimo Santaniello, Salvatore Cocciro, Santo Manenti, Angelo Giodice, Raffaella Signorelli, Maichael Palazzo, Francesco Algeri, Michele Ragusa, Calogero Ciccotta, Roberto Ruggeri, Angelo Giordanella, Mariaelisa Vita, l’esibizione in ensemble in scena con lo stesso Mattaliano e il Calamus, con Carmelo Dell’Acqua, Antonio Capolupo, Mariano Lucci, Giovanni Punzi, sono solo alcuni dei musicisti che hanno sostenuto l’idea del maestro Mattaliano, contribuendo a suonare il pezzo in un vero tour web che continua al momento senza sosta. 
Un’operazione che vuole dimostrare, anche a distanza, fuori dai palcoscenici, dalle piazze e dai teatri che la musica continua a vivere presentandosi al pubblico sempre in maniera elegante e raffinata attraverso la più innovativa tecnologia.  
Luz, in ebraico mandorlo dell’immortalità, dà un chiaro messaggio di speranza e rinascita per tutto il pianeta. La leggenda narra che un mandorlo situato vicino alla città di Luz di origine ebraica, da cui prende il nome è considerata soggiorno dell’immortalità come il mandorlo, così come l’essere umano può rinascere da se stesso, come la fenice dalle proprie ceneri. 
Il nome Luz, inoltre viene dato anche a una particella corporea indistruttibile, rappresentata simbolicamente come un osso durissimo, particella alla quale l'anima rimarrebbe legata dopo la morte e fino alla resurrezione. Luz non è solo luce e speranza, ma anche immortalità della musica, del pensiero libero di ogni individuo. 
Con l’augurio che Giovanni Mattaliano e tutti i musicisti che hanno preso parte, possano suonare questa piccola grande gemma, dal vivo, nei più importanti palcoscenici internazionali, tutti uniti in un unico sospiro. 

Luz, link da youtube canale Giovanni Mattaliano:

Loretta Goggi, 60 anni di carriera su chilometri d'amore: chapeau!

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Loretta Goggi ha festeggiato ieri 60 anni di carriera: una ricorrenza davvero particolare non solo per la cifra tonda ma anche perché connotata da una serie variegata di esperienze con cui l'artista romana si è sempre egregiamente distinta (sceneggiati e fiction, varietà e quiz, film, canzoni, musical, teatro, balletti, imitazioni, radio, doppiaggio). Lei stessa ha pubblicato un post sulla pagina Loretta Goggi in FB per condividere la gioia con i suoi ammiratori. Tanti auguri!

Miei cari tutti,

mi sono resa conto che ieri avrei dovuto festeggiare i miei 60 anni di carriera ma, presa da diversi accadimenti, se non fosse per una magnifica pianta di ‘limone caviale’ (cercate su internet! Io non la conoscevo) arrivata a casa con mia grande sorpresa mentre aspettavo la consegna della spesa, mi sarebbe passato di mente! La mia collaboratrice, invece, attentissima, mi aveva sentito accennare alla data durante un appuntamento di lavoro e così si è presentata in camera con il suo personale pensiero e uno squillante e sorridente: “Auguri!!!”

“Auguri? Per cosa?”- mi sono detta - e all’improvviso una pioggia di ricordi mi ha bagnato il cuore, ho percepito ‘totanbot’ tutti i miei 60 anni di lavoro riempirmi l’anima.

Ho rivissuto il mio primo giorno in sala prove all’Auditorium del Foro Italico , seduta ad un lungo tavolo,con davanti il mio ‘primo’ copione e uno stuolo di attori famosi da far tremare le gambe.... come l’ultimo sul set di Glassboy, fra baci e abbracci che ancora ci si poteva scambiare.

60 anni! Oddio,sono tanti, tantissimi considerato che ho iniziato a 10 e che, a parte musica, canto e pianoforte e qualche partecipazione a manifestazione per bambini, non avevo dimostrato alcuna particolare propensione per la recitazione.

Mina, anzi, Baby Gate era il mio idolo! La mia musa!

Oserei dire che a guardare indietro sento il peso di tutti questi anni di lavoro, dei chilometri macinati, degli alberghi, delle battute imparate, delle ore di trucco..

Poi realizzo che a settembre saranno 70 gli anni che compirò e, se Dio vorrà, se tutto andrà bene un altro film, altri impegni si aggiungeranno a quelli passati, ma anche che di una cosa sono più che certa: ‘la mia linea della vita è - e sarà sempre - chilometri d’amore’ come ‘cantava la Góggi quella vólta’ (cit. Pieno d’amore e cit. G. Minà).

Felicità,
Loretta

Il M° Antonello Manacorda dirige concerto in una Elbphilharmonie vuota

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(video) Il Maestro Antonello Manacorda aveva diretto l'ultimo concerto orchestrale con il pubblico dell'Elbphilharmonie - e anche il primo senza, dopo la pausa forzata dovuta al Coronavirus. 
In programma opere di Bach, Pärt, Mozart e Schubert con un piccolo cast e la partecipazione del violinista Frank Peter Zimmermann. È stato intervistato dal quotidiano online DieZeit.
Nell'articolo dichiara che Le sale vuote sono un dolore e quanto sia importante per lui lavorare con e per il pubblico. "Faccio il mio lavoro per il pubblico, devo comunicare con le persone che stanno ascoltando", dichiara. "È molto semplice: ogni brano ha bisogno di un compositore, interpreti e ascoltatori. Se manca uno di questi tre elementi, è come avere una gamba in meno."
Durante un concerto "avverto - continua Manacorda - se le persone prestano attenzione o meno, se c'è tensione nell'aria o meno. Suono con questa energia - lavoro con il pubblico e con i musicisti di fronte a me".

CAPPELLA SANSEVERO, RIAPERTURA 12 GIUGNO: La Meraviglia a un metro da te

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(video) Il 12 giugno la Cappella Sansevero riapre al pubblico dopo la chiusura imposta dall’emergenza sanitaria. Trent’anni fa, nella stessa data, la storica riapertura del Museo dopo il restauro (intervista a Fabrizio Masucci)

Esattamente trent’anni fa il Museo Cappella Sansevero riapriva al pubblico nel suo rinnovato splendore. Oggi, dopo la lunga chiusura imposta dall’emergenza sanitaria Covid-19, il complesso monumentale riapre al pubblico nella stessa data dell’inaugurazione del 1990, il 12 giugno.
I visitatori saranno accolti dalla frase di benvenuto “La meraviglia a un metro da te”, che caratterizza l’inizio di questa nuova fase di vita del gioiello barocco.

Nel giugno 1990, dopo tre anni di complessi lavori di restauro, fu celebrata la “nuova” Cappella Sansevero con una grande festa. Da Piazza San Domenico Maggiore fino all’ingresso del Museo in via De Sanctis, una grande folla accolse festosamente la riapertura: diversi artisti si esibirono sul palco appositamente allestito in piazza e la gente del quartiere partecipò a un grande evento di musica, arte e teatro, in un centro storico ancora poco conosciuto e frequentato dai turisti e dalla maggior parte dei cittadini.
Abbiamo scelto la data del 12 giugno perché desideriamo celebrare e ricordare quel momento memorabile nella storia della Cappella Sansevero – afferma Carmine Masucci, amministratore del Complesso Monumentale Cappella Sansevero. – Avremmo voluto festeggiare con un grande evento la ricorrenza dei trent’anni, ma il periodo che viviamo non lo consente. Appena sarà possibile, offriremo a tutti un momento di festa”.

Dalle ore 10.00 di venerdì 12 giugno la cappella ideata dal principe Raimondo di Sangro riaprirà le sue porte, per consentire nuovamente a tutti di ammirare il Cristo velato e le altre meraviglie del tempio barocco.
Uno spot realizzato da NFI – Napoli Film Industry racconta la ripartenza della vita del Museo attraverso suggestive immagini e il nuovo claim “LA MERAVIGLIA | A UN METRO | DA TE.”: https://www.facebook.com/museocappellasansevero/videos/258020131971248/.

“Avvertiamo una forte energia e voglia di ripartire nell’area dei decumani e confidiamo che l’attesa riapertura della Cappella Sansevero darà nuovo impulso a una ripresa graduale e costante del centro antico di Napoli – racconta Fabrizio Masucci, presidente e direttore del Museo Nelle ultime settimane stiamo ricevendo sempre più richieste di informazioni sulla data di riapertura e sui nuovi orari, segno che il desiderio di lasciarsi incantare dai capolavori che custodiamo sta aumentando sensibilmente”.

Per la visita sarà obbligatoria la prenotazione online, necessaria per regolamentare l’accesso dei visitatori e garantirne la sicurezza; sarà possibile prenotare anche last minute in biglietteriacompatibilmente con la capienza massima di visitatori stabilita all’interno degli spazi museali. Per i gruppi a partire da 10 unità sarà strettamente obbligatoria la prenotazione online e non sarà possibile prenotare in biglietteria.
Il Museo Cappella Sansevero sarà aperto dal mercoledì alla domenica dalle 10.00 alle 19.00 (ultimo ingresso consentito 30 minuti prima della chiusura).

Nel rispetto delle misure imposte dall’emergenza sanitaria, il Museo ha disposto una pianificazione degli accessi finalizzata a garantire la sicurezza dei visitatori, affinché possano godersi le bellezze della Cappella Sansevero in un contesto di silenzio e tranquillità.
La capienza massima complessiva nei tre ambienti del Museo sarà di 35 visitatori.
Sarà garantita la distanza di sicurezza di almeno 1 metro all’interno e all’esterno del Museo. L’ingresso e l’uscita avverranno attraverso varchi distinti.
In prossimità delle opere principali, dei pannelli esplicativi e delle zone di passaggio tra i diversi ambienti del Museo, un’apposita segnaletica, disegnata da Giovanna Grauso, indicherà il percorso di visita e garantirà il rispetto del distanziamento interpersonale.

Sarà obbligatorio indossare la mascherina per tutta la durata della visita. In diversi punti, in biglietteria, all’interno e all’esterno della Cappella, saranno a disposizione dei visitatori i dispenser di gel igienizzante per le mani.

All’ingresso del Museo tutti i visitatori saranno sottoposti al rilievo della temperatura corporea con termometro senza contatto. In caso di temperatura maggiore o uguale a 37.5° non sarà consentito l’accesso. Infine, sarà possibile noleggiare le audioguide, che verranno sanificate ad ogni singolo utilizzo e potranno essere ascoltate con auricolari propri o con auricolari monouso forniti gratuitamente dal Museo.

Foto di Marco Ghidelli
INFO:

Orari di apertura dal 12 giugno 2020:
Mercoledì – Domenica: 10.00-19.00
Ultimo ingresso: 30 min. prima della chiusura
Chiuso il lunedì e martedì

È possibile prenotare i biglietti in biglietteria last minute, compatibilmente con la capienza massima di visitatori e nel rispetto del distanziamento interpersonale.
I gruppi a partire da 10 unità devono necessariamente prenotare i biglietti online e non possono prenotarli in loco.
Per tutte le informazioni sulle nuove modalità di visita: https://www.museosansevero.it/regole-per-la-visita

Premio Volonté 2020 a Pierfrancesco Favino, Confermato il festival "La Valigia dell'Attore"

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L’isola di La Maddalena, in Sardegna, si prepara ad ospitare per la diciassettesima volta il festival La Valigia dell'attore, intitolato alla figura di Gian Maria Volonté che, nonostante il complesso momento dell’emergenza Covid-19 e in norma con la regolamentazione vigente, conferma le sue date dal 27 luglio al 1 agosto 2020.

La rete di festival “Le isole del cinema” conferirà quest’anno il Premio Volonté, la oramai nota barca in rame ideata da Mario Bebbu e realizzata da Umberto Cervo, ad uno degli attori più affermati della scena italiana ed internazionale: Pierfrancesco Favino.

“Siamo molto contenti di poter conferire il nostro più sentito riconoscimento ad un’interprete che ha dimostrato negli anni, esprimendosi tra teatro, cinema e televisione - una passione profonda e una grande preparazione in ruoli di ogni entità, spessore e difficoltà”. Così hanno dichiarato Giovanna Gravina Volonté e Fabio Canu, ideatori ed organizzatori della storica manifestazione. “Il suo percorso artistico, sviluppato nel corso di anni con dedito studio e attenzione ai linguaggi che la società dello spettacolo ha gradualmente trasformato, è perfettamente consono al valore del nostro festival che pone in primo piano la recitazione in proposte qualitative e originali in grado di far interagire memoria, attualità e futuro”.

Pierfrancesco Favino, romano di origine e classe 1969, conta tra i film più significativi dei suoi inizi “L'ultimo bacio” di Gabriele Muccino, “El Alamein” di Enzo Monteleone, “Le chiavi di casa” di Gianni Amelio.
Il suo percorso cinematografico prosegue con pellicole molto amate dal pubblico italiano come “Romanzo Criminale” di Michele Placido, “La Sconosciuta” di Giuseppe Tornatore, “Saturno Contro” di Ferzan Ozpetek e “Cosa voglio di più” di Silvio Soldini. Opere che gli valgono i primi importanti premi della critica.
Nel corso della sua carriera ha condiviso il set con i più importanti registi italiani, ne sono esempio “L'industriale” di Giuliano Montaldo, “A.C.A.B.” e “Suburra” di Stefano Sollima, “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana, “Le Confessioni” di Roberto Andò, “Baciami Ancora”, “A Casa tutti bene”, “Gli Anni più belli” di Gabriele Muccino.
Con il suo ultimo film, “Il Traditore” di Marco Bellocchio, presentato in concorso alla 72esima edizione del Festival di Cannes, ottiene un consenso internazionale unanime grazie all’interpretazione del pentito di mafia Masino Buscetta, aggiudicandosi un Nastro D’Argento, il terzo della sua carriera, come Migliore Attore Protagonista e un David di Donatello, sempre come Migliore Attore Protagonista. Il film ha rappresentato l’Italia nella corsa agli Oscar 2020. Durante lo stesso anno ha interpretato, con grande successo di pubblico, Bettino Craxi nel film “Hammamet” di Gianni Amelio per il quale ha ricevuto una nomination come Migliore Attore Protagonista ai Nastri D’Argento 2020.
Tra le partecipazioni a produzioni estere occorre citare: “Le Cronache di Narnia: il principe Caspian” di Andrew Adamson, “Miracolo a Sant’Anna” di Spike Lee, “Angeli e Demoni” e “Rush” di Ron Howard, “World War Z” di Marc Forster, “Marco Polo 1° e 2° stagione” (Netflix), “Une Mère” di Christine Carrière, “My Cousin Rachel” di Roger Michell e “The Catcher was a spy” di Ben Lewin.
Tra le produzioni televisive italiane più popolari ed apprezzate dal grande pubblico, i biopic di Rai Uno: “Gino Bartali l'Intramontabile”, “Pane e libertà” e “Qualunque cosa succeda” di Alberto Negrin; “Il generale Della Rovere” di Carlo Carlei.
A teatro in questi ultimi anni ha scritto, diretto e recitato gli spettacoli “Servo per Due” e “La Controra”. Nel corso dell’ultimo biennio è andato in scena con l’atto unico “La Notte poco prima delle foreste”. Spettacoli premiati dalla critica teatrale con due Maschere d’Oro, il massimo riconoscimento italiano del settore.
Dirige la scuola di perfezionamento del mestiere dell'attore L'Oltrarno di Firenze.

L’edizione 2020 de La Valigia dell'attore è realizzata con il sostegno e patrocinio di MIBACT – Direzione Generale Cinema, Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato alla Cultura e Assessorato al Turismo, Comune di La Maddalena, Ente Parco Nazionale Arcipelago di La Maddalena, Fondazione Sardegna, NuovoIMAIE, Artisti 7607 e la collaborazione della Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté e la Fondazione Cervi.

GIRO D’ITALIA

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Riaperte le gabbie ho dovuto correre per una settimana in giro per l'Italia e l’ho ritrovata più triste, spaventata, incerta.

Possiamo anche riderci sopra: c'è chi tiene la mascherina e chi no, chi ha paura e chi invece fa lo spavaldo ma - soprattutto - non c'è un hotel, un ristorante, un bar o un esercizio commerciale dove le norme vengano applicate - ma soprattutto vissute - in modo univoco.
Siete mai stati al ristorante dopo il 3 giugno? Avete notato se e come l'olio per l'insalata ve lo abbiano portato in tavola? E' un micro-esempio tra chi ha optato per le bustine in plastica monouso (davvero con olio extravergine ?!) oppure con il cameriere che non molla la bottiglia perchè l’olio te lo versa assolutamente solo lui, passando da chi va avanti alla moda vecchia o a chi invece l'insalata la serve  già condita e  sotto cellophane, in arrivo direttamente dalla cucina.
Stesso destino per i piatti di portata (monoporzioni o comuni per più commensali?) che hanno sollecitato la fantasia dei più. Come dividere in due una fiorentina se non siete "congiunti" o una spigola di un chilo? E non parliamo poi delle colazioni la mattina in albergo, orfane dei buffet e che finiscono tragicamente tra bicchieri di plastica, merendine monouso con stop agli affettati per la gioia dei vegani e soprattutto dei suini italiani ed esteri. Crollano così i risotti "minimo due porzioni" e - sparito da tavola il parmigiano grattugiato -  in generale è una corsa culinaria al ribasso e alla mortificazione dei sensi.
Poi c’è il report dei 14 giorni 14: ti chiedono cognome e nome con la data di nascita, oppure no: meglio solo il codice fiscale. Nell’incertezza lascia anche il telefono, in alternativa takeaway e scappi (pagando, però!) mentre qualcuno ti propone un’agenda da compilare (ma così leggi chi c’è seduto all’altro tavolo, come la mettiamo con la privacy?). Allora meglio solo un foglietto… ma la penna con uso in comune sarà sterilizzata?
In un moltiplicarsi di disinfettanti - a pedale, monouso, a piantana, automatici o manuali - l'impressione è che si punti soprattutto alla facciata più che alla sostanza tra plexiglass, cartelli, scritte a volontà e tante mascherine: bianche, verdi, nere, tricolori, griffate, personalizzate, con o senza valvola.
E' un'Italia divisa anche per età: superi in autostrada l'anziano che da solo guida la sua Panda rigorosamente con mascherina (anche se nell'abitacolo è solo) passando alla "movida" serale di chi del virus se ne frega.
Ma fin qui abbiamo scherzato: poi c’è la realtà.
Ho percorso Ponte Vecchio a Firenze spettrale e squallido in pieno giorno con le sue botteghe chiuse e gironzolato in una Roma desolatamente semideserta già in prima serata. L’Italia turistica è quella più profondamente in crisi, triste e preoccupata, con gli operatori che temono come ancora non ci sia resi conto - al vertice - di quanto peserà questa voce sulla minor ricchezza di tutti e non solo per le boutique deserte dell'alta moda, ma anche per tutti quei negozi che hanno sì riaperto, ma non battono un chiodo.
Se poi incroci qualcuno che il virus l'ha subito - di solito da asintomatico o con  sintomi molto lievi - è costante la litania dei disservizi, di tamponi persi o non fatti, di tempi buttati via senza  un protocollo serio che valesse  per tutti.
Mentre ingialliscono ovunque gli arcobaleno dell'"andrà tutto bene" si moltiplicano i dubbi sul futuro economico di un Paese spaccato tra "garantiti" e non.
C’è invidia per i dipendenti pubblici dallo stipendio sicuro rispetto a disoccupati, lavoratori autonomi e tante partite IVA che devono già prepararsi a pagare IMU e tasse varie senza aver incassato niente: un mugugno generale che non promette niente di buono.
Anche perché soldi ne sono arrivati poco nonostante tante (troppe) promesse e vedremo l’utilità di questi “Stati Generali” che per ora sembrano soprattutto l’ennesimo show di Conte & C.
Marco Zacchera
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