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Giorgio Bevignani a New York per INDIXIA 2020, evento benefico durante la Fashion Week

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Il 13 febbraio 2020 alla Sundaram Tagore Gallery di Chelsea, New York

La Fondazione INDIXIA fa il suo ritorno a New York, il 13 febbraio 2020 con INDIXIA 2020 GLOBAL LOVE, nella serata di chiusura della Fashion Week, con una mostra d'arte seguita da un'asta di beneficenza, ospitata dalla Sundaram Tagore Gallery di Chelsea (New York).
INDIXIA nasce da un’idea di Alessandra Fremura per sostenere la Fondazione Arts For India (AFI), fondata nel 2010 da Satish K. Modi nel Regno Unito, con l’obiettivo di aiutare i giovani non abbienti in India, permettendo loro di crearsi una via d’uscita dalla povertà attraverso l’accesso all’istruzione artistica. Da quattro anni INDIXIA organizza eventi di beneficenza di alto livello con la partecipazione di artisti di spicco nel panorama mondiale, al fine di fornire a ragazzi svantaggiati l'accesso all'istruzione attraverso l'assegnazione di borse di studio. La Fondazione collabora con partner d’eccellenza internazionale nei settori delle Belle Arti, del Design, della Moda, del Cinema e della filantropia, a supporto di organizzazioni globali, legalmente riconosciute, senza scopo di lucro.

Dopo il successo delle scorse edizioni alla Solomon Guggenheim di New York, a Hong Kong e a Londra, INDIXIA torna a New York portando avanti la propria mission benefica, sostenendo l’IIFA (International Institute of Fine Arts) e l’Afghan Hands. Il ricavato dell’evento, infatti, sarà devoluto a queste due realtà che da anni supportano le popolazioni vulnerabili, come donne e ragazze, aiutandole a ottenere l'indipendenza e l'accesso alla formazione scolastica nel campo artistico e offrendo una via di fuga concreta dai problemi di disuguaglianza di genere e matrimoni combinati. In particolare, grazie all’alleanza di INDIXIA con AFI, 100 ragazzi beneficiano di una borsa di studio di quattro anni con la quale frequentare l’IIFA. Questo programma è di vitale importanza per i giovani indiani che riescono, grazie all’istruzione, a rompere il ciclo della povertà.

Tra gli artisti presenti a INDIXIA 2020 è stato invitato a partecipare Giorgio Bevignani, che per l’occasione esporrà un’opera inedita dal titolo “Orma diptych”. Dopo le importanti esperienze a Miami all’interno della Fiera Context Art con la Galleria Stefano Forni e in Giappone al Moa Museum of Art - MOA 美術館 di Atami, Giorgio Bevignani continua a far conoscere il suo lavoro nel mondo, riscuotendo ampio successoScultore e pittore, Bevignani vive e lavora in Italia, in provincia di Bologna, dove modella, plasma e assembla diversi materiali trasformandoli in opere d’arte. Esse provengono da una ricerca artistica basata su scienze contemporanee, storia, mitologia, filosofia e matematica, le quali rappresentano le sue ispirazioni di partenza per lavorare la materia.

Numerosi saranno gli altri artisti provenienti da tutto il mondo; possiamo già nominare: Gustavo Aceves, Leon Belsky, Peter Drake, Veronica Fonzo, Veronica Gaido, Oriano Galloni, Bendy Ghelarduccy, Jacquie Hacansson, Michael Haggiag, Jago, Anna Minardo, Shalini Nopany, Olga Radicchi, Flavia Rabalo, Paola Tazzini Cha Hans Uder e altri ancora da annunciare.

L’evento sarà ospitato dalla prestigiosa e rinomata Sundaram Tagore Gallery di Chelsea, galleria d’arte contemporanea di rilievo internazionale con sede anche a Singapore e Hong Kong. Tra gli artisti che hanno esposto in questa galleria segnaliamo Edward Burtynsky, Chun Kwang Young, Anila Quayyum Agha.

INDIXIA 2020 è organizzato con il sostegno dei partners, tra gli altri: Rocketbuster Handmade Custom Boots, Sundaram Tagore Gallert, Noble Chic, Georgia Salvatici Photographer, Fournier PR + Consulting, FB International, Shipping Services, Gianluca Rondina, Marcella Ferretti Visuals. Media partner: Modern Luxury Manhattan.

GIORGIO BEVIGNANI: BIOGRAFIA

Giorgio Bevignani nasce a Città di Castello nel 1955, vive e lavora a Castel San Pietro Terme, Bologna (Italia).
Maestro d’Arte all’Istituto d’Arte San Bernardino di Betto di Perugia nel 1979.
Diploma di maturità in Arte applicata (scultura) all’Istituto d’Arte Duccio di Buoninsegna di Siena nel 1981. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1984 al 1986, e l’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano) dal 1986 al 1988.
Membro della Royal British Society of Sculptors dal 2014.

Le sue opere si trovano in collezioni private a MOA 美術館 – Museum of Art di Atami in Giappone, Miami, Milano, Francoforte, Siena, Bologna, Roma, Reggio Emilia, Brescia, Ancona, Cesena, Modena, Imperia, Bogotà, Nizza, Basilea, Strasburgo, Bruxelles, San Paolo, Helsingborg, Città di Castello.


"Guido Vanzetti: il futuro è ieri",dal 18 gennaio mostra del grande fotografo e inventore della computer grafica in Italia

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All’Istituto Superiore di Fotografia di Roma e all’interno di spazio_duale per la prima volta in mostra le opere e l’ingegno del grande fotografo e inventore della computer grafica in Italia

Nell’era dell’intelligenza artificiale, riscoprire la figura eclettica di un grande fotografo che, oltre quarant’anni fa, è stato anche pioniere della computer grafica in Italia: è questo il senso della mostra “Guido Vanzetti: il futuro è ieri” nata dal desiderio della moglie, Ornella Folinea Vanzetti, di celebrare il genio e l’estro creativo di un grande visionario. La mostra verrà ospitata per la prima volta in Italia dall’Istituto Superiore di Fotografia – ISFCI di Roma dal 18 gennaio al 29 febbraio 2020.
La prima personale, dedicata a Guido Vanzetti (1938 – 1994) a venticinque anni dalla sua scomparsa, è un vero e proprio viaggio nella storia della comunicazione visiva in Italia che parte dall’innovazione nella fotografia di moda anni Sessanta (sono di Vanzetti i ritratti della prima modella afroamericana in Italia), passando per le diverse tecniche grafiche utilizzate per manifesti pubblicitari, poster e copertine di album, fino ai prodromi dell’animazione in computer grafica in Italia, collaborando al perfezionamento della prima tavoletta grafica.

L’esposizione a ingresso gratuito è organizzata da ISFCI in collaborazione con l’associazione culturale spazio_duale, con il patrocinio della Regione Lazio e ospiterà oltre 50 fotografie originali, poster e copertine, videoinstallazioni dedicate ai suoi lavori in computer grafica, fino al Silicon Graphic IRIS 1000, il computer utilizzato da Vanzetti per le sue animazioni grafiche.

Oltre alle opere dell’autore, perfetta sintesi tra capacità tecnica e creatività artistica, la mostra vuole raccontare il Vanzetti sperimentatore, quello che verso la metà degli anni Settanta organizza una gigantesca multivisione per la Rank Xerox presso il Museo della Scienza di Milano.

È da lì che comincia la sua passione per l’informatica in generale e per la computer grafica in particolare. Nel 1979 è il primo a utilizzare un sintetizzatore vocale in una trasmissione di radio Rai tre, in una sorta di improvvisazione informatica di scomposizione e ricomposizione del testo per creare un vero e proprio GR immaginario, surreale abbinamento di fatti e personaggi reali. O ancora qualche anno dopo, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, realizza “Uno oppure zero” esperimento didattico con i bambini di una scuola romana per spiegare attraverso disegni, foto e animazioni come funziona il computer e il primo esperimento di animazione realizzato completamente in computer grafica “Pixnocchio” (1982).

La mostra sarà allestita in due sale dell’Istituto che ha sede nel palazzo Cerere, antico pastificio nel cuore del quartiere di San Lorenzo di Roma: un’ala dell’esposizione sarà infatti dedicata al Vanzetti fotografo, con stampe originali di fotografie di moda, videoproiezioni e un visore luminoso con alcune diapositive originali. Inoltre saranno esposte fotografie in bianco e nero di tante star italiane, da Patty Pravo a Luigi Tenco, da Ornella Vanoni a Paola Pitagora, fino a Raffaella Carrà, ritratte dell’artista negli anni Sessanta.

Nella seconda sala ci si potrà, invece, immergere nelle creazioni di grafica e video grafica con la proiezione di Pixnocchio, il primo esperimento di video-animazione italiano realizzato in computer grafica.

Il video realizzato nel 1982 registrando su pellicola 16mm le singole immagini visibili sul monitor è il primo cartone animato tridimensionale realizzato in Italia completamente al computer. Un burattino elettronico che attraverso una sovrapposizione sempre più complessa di linee e figure geometriche finisce per acquisire spessore e “vita” tridimensionale. Ogni immagine impiegava 5 minuti per essere creata e per comporre un solo secondo di video servivano 12 immagini. La durata totale del film è di 3 minuti e 30 secondi per un totale di 2520 singoli fotogrammi e 210 ore necessarie al calcolo del computer.

Attraverso la testimonianza di vita di un vero innovatore come Guido Vanzetti, la mostra che rimarrà allestita fino al 29 febbraio, sviluppa così un percorso a 360 gradi nelle arti grafiche del XX secolo in Italia.

          La mostra è a cura di Riccardo Abbondanza, Anna Macaluso, Jacopo Tofani e Ornella      Vanzetti.





ISFCI e spazio_duale: il nuovo luogo di cultura a Roma



spazio_duale è il nuovo punto di incontro per le arti visuali a Roma. Inaugurato nel febbraio 2019, lo spazio è situato all’interno dello storico Pastificio Cerere, dove collabora a stretto contatto con l’Istituto Superiore di Fotografia e si propone come vetrina espositiva e contenitore per la didattica, punto di incontro per artisti e amanti dell’arte.
spazio_duale ospita talk, seminari, workshop, mostre di autori nazionali ed internazionali contemporanei e incontri su fotografia, illustrazione, design, multimedia, street-art, pittura, graphic novel, scultura e architettura.
L’ISFCI mette in campo i suoi professionisti e la sua esperienza trentennale nel mondo della fotografia al servizio di questa mostra inedita di un artista, fotografo e non solo, ancora da scoprire.





Mostra GUIDO VANZETTI: IL FUTURO È IERI

18 gennaio – 29 febbraio 2020

Istituto Superiore di Fotografia - ISFCI

Via degli Ausoni, 1 – Roma

Info: 06 4469269

INGRESSO GRATUITO

Inaugurazione: sabato 18 gennaio 2020, ore 18

Paola Giorgi è "Lady Diana" un essere complesso, profondo, desideroso di esprimersi e bisognoso di amore. L'intervista di Fattitaliani

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Da stasera al Teatro Brancaccino di Roma in scena Paola Giorgi con "D La principessa Diana e la palpebra di Dio" scritto da Cesare Catà e diretto da Luigi Moretti (leggi). Fattitaliani l'ha intervistata.
Ha affermato di stimare Lady D per la sua libertà: in che cosa si è particolarmente manifestata?
Diana Spencer non ha abdicato al suo essere per sottostare a regole rigide e, oggettivamente, a volte anacronistiche. Diana è nata e cresciuta in una famiglia di nobili origini, quindi educata in quel contesto, consapevole del ruolo che avrebbe potuto ricoprire. Non era una persona improvvisata, capitata lì per caso o per convenienza: era una donna cosciente, ma libera. E ha sofferto molto per affermare questa sua libertà.
Su quale aspetto secondo lei, Lady D non è stata ancora capita?
Diana è molto amata, ancora oggi, sopratutto dalle donne. Se qualcosa non è stato compreso è la sua ribellione, interpretata come un istinto rivoluzionario, ma che in realtà era solo affermazione del suo essere. Un essere complesso, profondo, desideroso di esprimersi e bisognoso di amore. 
In cosa si incontrano e in cosa si scontrano le voci dei personaggi di oggi con quelli dei miti?
Nel testo ci sono incontri tra le vicende di Diana, nei rapporti con il Principe Carlo e con la Regina Elisabetta II e le vicende di Antigone, Medea, Arianna. C'è qualcosa di tragico, in senso teatrale, nella vita di Diana. L'insubordinazione dell' Antigone di Sofocle è la ribellione di Diana verso le dure regole della Regina che infatti, nel dialogo con Diana, si esprime attraverso le parole di Creonte. Nel Principe Carlo troviamo il Giasone della Medea di Euripide, nella difesa del suo tradimento e l'attacco frontale verso Medea - Diana incapace di mantenere in vita il rapporto. Non troviamo il gesto assoluto della vendetta di Medea, compiuto nei confronti dei suoi figli e qui il rapporto con il mito si scontra ed emerge la forza di Diana madre. La citazione dalle Erodiadi di Ovidio, a conclusione dello spettacolo, per me una delle cose più belle, è una sorta di testamento di Diana, rivolto a Carlo, in cui trova ancora linfa l'amore che lei ha nutrito per lui.
A livello scenico, su quali scelte in particolare avete insistito col regista per rendere appieno il personaggio?
Quello che abbiamo cercato di rendere è la nobiltà di Diana, l'eleganza che l'ha contraddistinta e la vitalità.
La scena è volutamente essenziale, il tappeto nero lucido in cui lei si muove, scalza, in un elegantissimo tailleur pantalone bianco (Diana è stata la prima donna, appartenente alla famiglia reale, ad indossare il pantalone in un evento pubblico) rispecchia, a volte in maniera difforme, la sua anima. Come è stato in vita per lei. In scena, velata, c'è un' altra Diana, Chiara Orlando, che con la sua tromba jazz racconta la coscienza di Diana. Un presenza forte e suggestiva.
Quale passaggio del testo di Cesare Catà in maniera speciale coglie l'essenza di Diana?
Uno, nitido: "Io avevo nell'anima qualcosa che non rientrava nei piano politici del regno. Io pretendevo di essere amata".
Giovanni Zambito.

PAOLO GAMBI, il poeta della contemporaneità liquida lancia il suo nuovo libro su amazon

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La bellezza sta già salvando il mondo, ma ognuno deve fare la propria parte”. A sostenerlo è Paolo Gambi, scrittore, poeta, giornalista, docente ed ex mental coach, che ha fatto della crescita personale il fil rouge della sua vita e della sua arte.

Proprio per questo ha collezionato varie esperienze professionali, scrivendo ben 28 libri e firmandone alcuni insieme a personaggi come il Cardinal Ersilio Tonini, Ettore Gotti Tedeschi, Alessandro Cecchi Paone, Alessandro Meluzzi, Raoul Casadei.

Vincitore del Premio Guidarello per il Giornalismo d'Autore nel 2012, del Premio Rimini Europa nel 2016, del San Domenichino nel 2018 e nel 2019 del premio Loris Malaguzzi per la poesia, nel 2014 è stato nominato dall’Ambasciata italiana Testimonial del mese della cultura italiana nel Principato di Monaco.

Paolo Gambi è stato anche ospite di varie trasmissioni tv oltre che radiofoniche (spesso legge poesie in Rai), non mancando di amplificare la sua presenza sui social.

Poi è arrivata la poesia: “Ho scelto la Poesia in modo particolare: non pubblicandola. Mi sono a lungo limitato a dare qualche verso ai seguaci su Instagram, con un discreto riscontro lungo gli anni (al momento circa 22.900 follower su instagram)” - racconta l'autore, che ad un certo punto ha deciso di riavvicinarsi all'editoria, ma seguendo la sua esigenza di vivere nel tempo presente approfittando delle occasioni che offre: “di solito in Italia gli scrittori autopubblicano su Amazon con l'obiettivo di arrivare poi a essere notati da un grande editore. Io ho fatto il percorso inverso, non a caso, come un salmone: dopo molti libri nel gruppo Mondadori, ho scelto Amazon. Credo che questa scelta sia in piena coerenza con la mia identità artistica: mi dà libertà, contatto diretto con i lettori. E mi fa sentire proiettato verso il futuro”.

La sua ultima raccolta si intitola “L’enigma del paguro, La memoria della magnolia, L’approdo
del salmone” e sta già riscontrando un certo successo, anche a livello di vendite.

Però per Paolo Gambi “mettere poesie sulla carta equivale a ucciderle”, quindi è sempre alla ricerca di luoghi (fisici e non solo) che la possano ospitare.

È per questo che sta lanciando “Un Paguro in Salotto”, un house tour poetico su invito e, all'insegna della contaminazione, ha partecipato alla mostra “I Dreamed a Dream – Chapter 1” in corso (fino al 7 marzo) alla galleria Marignana Arte di Venezia con dei contributi poetici ispirati all'arte visiva esposta.

Per saperne di più:
Amazon:

Rusalka, a Gent funziona la combinazione opera balletto. La recensione di Fattitaliani

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(il cast) Spirito e corpo, storia e leggenda, realtà e favola, acqua e terra, ninfe ed esseri umani.
La narrazione di "Rusalka", opera di Antonín Dvořák (con libretto in ceco di Jaroslav Kvapil), a Gent, con la direzione musicale del giovane Maestro Giedrė Šlekytė, la regia e le coreografie di Alan Lucien Øyen, raggiunge il suo culmine nel suo intrinseco aspetto duale. Assecondano, infatti, la musica e il testo rendendo più facile allo spettatore la comprensione e il coinvolgimento.
Un'atmosfera da favola ha i suoi tempi, prosegue quasi sospesa lungo l'asse delle successioni (a)temporali e porta dunque con sé il rischio di far perdere connessioni e legami fra le varie parti della vicenda e i suoi personaggi.
A Gent, grazie allo sdoppiamento dei ruoli, interpretati contemporaneamente da cantanti e danzatori, non solo ogni cosa diviene più chiara, ma anche più godibile.
La lentezza di certe sezioni dell'opera si trasforma in un'occasione per ammirare lo struggimento di alcuni ruoli tramite la grazia, la bravura e la fisicità dei danzatori.
Eccezionale Matt Foley che ha reso perfettamente la pena e l'impotenza di un padre che assiste irrimediabilmente alla perdizione della figlia.
Rusalka, cantata da Tineke Van Ingelgem nel terzo atto più convincente, è la ballerina Shelby Williams: leggera ed espressiva, restituisce benissimo l'aspirazione di una ninfa che ambisce a trasformarsi in un essere umano, come pure la delusione ricevuta dal principe.
Quest'ultimo si avvale del corpo di Morgan Lugo (fantastico ) e della voce di Mykhailo Malafii.
Ammettiamo che le voci non ci hanno fatto impazzire in questa messa in scena: sembravano distanti, non in armonia con quanto rappresentavano.
Da sottolineare il personaggio di Ježibaba ben reso da Maria Riccarda Wesseling, la musica del terzo atto in cui si evidenziano nitidamente le diverse componenti emotivo-strumentali. Infine, il magistrale gioco delle luci di Martin Flack che ha saputo valorizzare l'essenziale scenografia facendo distinguere le distinte ambientazioni. Giovanni Zambito.

Libri, Federico Larosa e il 1° romanzo "Nell'addio" frutto di esperienze personali e non. L'intervista di Fattitaliani

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Amore, amicizia, sesso, paure, coming out e relazioni familiari: sono gli elementi chiave che ritroviamo nel primo romanzo di Federico Larosa"Nell'addio", la storia dell'incontro tra Edoardo e Alessandro, Merlino edizioni. Fattitaliani lo ha intervistato.

Edoardo e Alessandro sono rintracciabili in storie di persone che conosci personalmente? in che cosa ogni lettore vi si può riconoscere?
“Nell’addio” è frutto di esperienze personali e non. Penso che in ogni personaggio ci sia qualcosa di me e allo stesso tempo altro da me. I lettori mi rivelano di riconoscersi in sensazioni, emozioni ed esperienze che i protagonisti del mio libri vivono e si trovano ad affrontare.
Quanto è difficile ed eccitante scrivere, dare forma e pubblicare il primo romanzo?
Eccitante molto, difficile non saprei. Conoscevo bene la storia che dovevo raccontare, per me era tutto così chiaro che le vicende dei personaggi sono fluite con estrema naturalezza. L’eccitazione maggiore però l’ho provata dopo la pubblicazione, dopo la prima presentazione, quando ho realizzato che tutte le persone che avevano partecipato e condiviso con me quel momento così speciale stavano leggendo il libro che avevo scritto. Questo finché le stesse persone non hanno cominciato a scrivermi commenti entusiastici sul libro, questa è in definitiva la cosa più elettrizzante: sapere che le emozioni che mi hanno attraversato durante la scrittura hanno raggiunto un pubblico vasto ed eterogeneo.
La sua gestazione è durata a lungo? ricordi qualche episodio che l'ha accompagnata?
Ho impiegato circa un anno e mezzo per scriverlo. Ricordo con piacere i sopralluoghi a Città della Pieve e la visita a Piccolomini in compagnia di un’altra Giorgia. 
Hai un angolo dove ti viene più facile e scorrevole mettere per iscritto la tua ispirazione?
Ho cambiato casa durante la gestazione del libro. Nella vecchia casa scrivevo per la maggior parte del tempo alla scrivania in camera da letto, in quella nuova ho preferito il divano del soggiorno, magari sorseggiando del vino rosso e accarezzando Enea, il mio gatto. 

Come ti sei posto di fronte ai tuoi personaggi? sono cambiati nel corso della narrazione rispetto ai propositi iniziali?
Pensavo di conoscerli bene, perché la storia mi girava in testa da tanto tempo. Ho cercato semplicemente di ascoltarli, di ascoltare quello che avevano da dirmi. Non saprei dire se sono veramente cambiati nel corso della narrazione ma sicuramente mi hanno sorpreso. Giorgia, per esempio, ma anche Marcello, l’autista di autobus. 
Su quali letture e autori ti sei personalmente formato? 
Come lettore sono appassionato dei romanzi di Stephen King, non me ne perdo uno; e ho letto tutta la serie scritta da Patricia Cornwell con protagonista Kay Scarpetta che cito anche nel romanzo. A parte questi autori, mi piace leggere un po’ di tutto, non solo romanzi ma anche saggi di natura politica e filosofica, anche se confesso di avere una predilezione per i thriller, magari il mio prossimo romanzo sarà proprio un thriller! 
Giovanni Zambito.

Paolo Massimo Rossi, scrittore, ci presenta il suo ultimo romanzo “Jacob Rohault. I giorni di Venezia”. L'intervista

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«L'amore e l'impegno per la cultura può e deve convivere con l'amore per la vita, per i sentimenti, per la scoperta» di Andrea Giostra
 

Ciao Paolo, benvenuto e grazie per avere accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori? 
In qualche modo vorrei presentarmi con le stesse modalità con le quali mi presenterei a me stesso: uno scrittore che esplora i sentimenti e le modalità con cui questi vengono trasmessi a chi legge. In altri termini un costruttore di modi che siano esplicativi del mio modo di concepire la letteratura, come anche le capacità di amare e provare i sentimenti dei miei personaggi. Anche a costo di addentrarmi in quella che, attraverso le parole, ricercate ad hoc, potrebbe apparire come una fredda analisi. Con la speranza che sia stimolante per tutti. 
Qual è la tua formazione professionale e artistica? Ci racconti il percorso che ti ha portato a svolgere quello che fai oggi? 
Premesso che prima di iniziare il mio percorso, diciamo così artistico, esercitavo la professione tecnica di ingegnere, devo convenire che la stessa presentava aspetti deludenti che la rendevano insoddisfacente. E non tanto per la mancanza di una visione olistica, che pur in quella attività è più che rintracciabile, quanto per il rischio possibile che il tecnicismo e l'esigenza del "tanto mi tanto" avrebbero potuto farmi relegare in standby le modalità più liriche del conoscere. Dunque, a partire da un momento pur anche nebbioso, ho sentito il bisogno di recuperare aspetti che sino a un certo punto della mia vita erano stati elementi al contorno, caratterizzati solo da momenti ludici secondari e non professionalmente definiti. 
Nel 2019 hai pubblicato il tuo ultimo romanzo, “Jacob Rohault. I giorni di Venezia” edito da CTL Editore Livorno. Ci racconti come nasce questo libro, dove è ambientato e di cosa narra?
Jacob Rohault nasce dalla scoperta di un libro che per anni era rimasto inascoltato nella mia libreria, Tractatus Phisicus, scritto da un filosofo francese vissuto nel diciassettesimo secolo: Jacob Rohault, appunto. La bellezza della stampa, ricca di incisioni e disegni scientifici tipici dell'epoca, a un certo punto suscitò in me la curiosità di saperne di più. Cercando, trovai nella rete notizie inspiegabilmente molto scarse. Si trattava di un filosofo francese insegnante alla Sorbonne che aveva scritto e pubblicato un trattato di evidente formazione cartesiana. Ma lo stimolo a scriverne arrivò soprattutto dalla circostanza che Rohault fu rapidamente dimenticato, probabilmente anche per il prevalere, nella cultura dell'epoca, delle teorie Newtoniane. In qualche modo fui affascinato dalla possibilità di rendere giustizia a quell'autore parlando delle sue posizioni scientifiche e del suo amore per la filosofia. Ma anche immaginando, e qui do un riconoscimento alla mia passione scrittoria, una sua permanenza a Venezia per far stampare il trattato. E Venezia, a quell'epoca era il luogo deputato a queste attività.
Cosa dovranno aspettarsi i lettori e quale il messaggio che vuoi lanciare loro con questo romanzo? 
Sostanzialmente, che l'amore e l'impegno per la cultura debba e possa convivere con l'amore per la vita, per i sentimenti, per la scoperta non solo di principi scientifici ma anche della consapevolezza che tutti possiamo essere persone, con difetti, pregi, passioni, innamoramenti e, soprattutto, per la disponibilità a parlarne non confessionalmente ma laicamente. 
Ci parli delle tue precedenti opere e pubblicazioni? Quali sono, qual è stata l’ispirazione che li ha generati, quale è il messaggio che vuoi lanciare a chi li leggerà?
Prima di Jacob Rohault, avevo scritto altri romanzi: Con gli occhi di Arianna, L'intruso nelle vecchie stanze, Il venditore di pensieri altrui. C'è un filo conduttore che lega questi romanzi, pur molto diversi nei contenuti. E il filo è costituito dalla voglia di partecipare delle emozioni e dei sentimenti di persone che, pur nelle loro diverse peculiarità letterarie, potevano essere simbolo e metafora di un'umanità vera e nelle quali in tanti potevano riconoscere qualcosa di sé. Arianna è stato il tentativo di uno scrittore "uomo" di scrivere un diario tutto al femminile. L'intruso è la storia di una ricerca di vecchi libri e documenti storici in una casa abbandonata; ricerca che, strada facendo, perde il suo oggetto programmato, per abbandonarsi alla lettura di altri scritti, intimi, anche trasgressivi e drammatici d'amore e di morte. Il venditore di pensieri altrui è un gioco sul fraintendimento e sulla interpretazione delle parole e del loro significato. Il messaggio è, evidentemente, un metamessaggio, nel senso che chi legge possa non fermarsi alle storie in sé, ma trovi nel linguaggio usato una corrispondenza amorosa e coinvolgente con quelle. 
Come nasce la tua passione per la scrittura? Ci racconti come hai iniziato e quando hai capito che amavi scrivere? 
Credo che la passione per la scrittura sia nata dall'emozione provata da bambino leggendo Emilio Salgari e i suoi cicli dei corsari. Una passione che si è trasformata più tardi in amore assoluto anche, lo confesso, per spirito di emulazione con le storie scritte da grandi autori. Un fascino non legato semplicemente alle narrazioni tout court, ma anche alla scoperta di un mondo latente e sotterraneo, in qualche modo poco visibile, di una sorta di insicurezza che quegli autori volevano e dovevano vincere attraverso le loro opere. In fondo facendo in modo che la mia insicurezza fosse specchio della loro, se pur accompagnandola con una inconfessata o inconfessabile vanità. 
Una domanda difficile Paolo Massimo: perché i nostri lettori dovrebbero comprare “Jacob Rohault. I giorni di Venezia” e gli altri tuoi libri? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria a comprarne alcuni. 
Jacob Rohault per la coesistenza degli intrighi tipici della città lagunare con lo stupore e l'onestà intellettuale del protagonista. Che viene irretito dal gioco sensuale e a volte perverso delle donne che lo adulano, lo provocano, lo seducono, lo abbandonano ma che, inaspettatamente, gode del piacere di nuove amicizie e, inevitabilmente, s'imbatte nel fastidio di malevoli inimicizie. Arianna, per la ricerca sofferta di sé stessa. Arianna vive in due donne separate che finiscono per ricongiungersi e trovarsi quando le immagini dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza si incontrano con quelle della maturità: in quel momento, la frammentarietà delle esperienze, umane, sentimentali e a volte eroticamente trasgressive, si avvia a trovare compiutezza in una maggiore coscienza di sé smussando le asprezze altalenanti tra anarchiche velleità e sofferte sottomissioni. Nel venditore di pensieri altrui, per la magia dell’itinerario lavorativo e intellettuale del protagonista Roè: da cartomante a venditore di libri usati a scrittore. Roè percorre strade della Romagna e di una Bologna quasi sempre notturna incontrando e conoscendo persone con le quali non riesce ad aprirsi veramente. Ma è il paesaggio urbano minore che gli suggerisce pensieri, desideri e velleità, come anche i presupposti per raccontare. I rapporti e i dialoghi con le persone con le quali viene a contatto, per quanto superficiali, gli permettono di inventare una personale scrittura che diventa una sorta di palinsesto sul quale costruire le storie. E le parole inventate, ascoltate, lette, ricordate, finiscono per essere le prede con cui nutrire la fame della scrittura. 
Parole magniloquenti nella forma e certo dettate dall'atmosfera storica e culturale del momento. Calandoci nella realtà dei nostri giorni, potremmo chiedere: Cos'è la bellezza, nell'arte, nella stessa vita?  Provando a rispondere non dal punto di vista del professionista della scrittura, ma da quello di chi vive nella società tecnologica, o da quello degli adolescenti che spesso sono fuorviati da facili miti e dal fascino del consumo e, conseguentemente del denaro necessario a realizzarlo, sarebbe bello sentire: "Il mezzo attraverso il quale la forma diventa stile". E questa risposta auguro a loro di pronunciare. In un passo successivo potrei porre la domanda: L'arte e la bellezza decorano la vita e formano le persone? Il sogno dello scrittore vorrebbe ascoltare: “Tutto ciò che decora la vita è formazione”. Dunque la speranza: che i Millennial e gli adolescenti, pur nell'infinita varietà dei canoni possibili, infine salvino il mondo attraverso la conoscenza del bello e dell'arte. E al riguardo non smetterei mai di consigliare la lettura di un testo fondamentale per il mio sentire, diciamo così, artistico. Intendo Filosofia dell'arte di Antonio Banfi, un testo che si avvalse della cura meticolosa di Dino Formaggioper il quale "I veri maestri di vita e conoscenza hanno una caratteristica rilevante: non invecchiano mai. Su di loro e sulle loro opere, il tempo non aggiunge scorie, bensì nuove possibilità, che li rendono sempre più vivi." Opinione che conferma in ogni caso le parole di Finocchiaro Aprile e rendono universalmente a-temporale il valore della bellezza per la salvezza del mondo. 
Esiste oggi secondo te una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura dell'antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi Novecento? 
Certamente la musica. A partire da Pitagora, che si dice abbia scoperto quasi per caso il fondo numerico/matematico dell'armonia musicale, in tal modo mostrandone il fascino misterioso e ancestrale. Per proseguire con la madre di tutte le discipline della conoscenza: la filosofia. Dopo secoli di speculazioni filosofiche, mi piace ricordare il mirabile, e certo lirico riconoscimento einsteiniano sull'armonia delle sfere enunciato all'inizio del secolo scorso. E d'altra parte, come non inchinarsi di fronte al principio popperiano per il quale una verità scientifica o filosofica può essere tale solo se falsificabile? Una proposizione che non è affatto cripticamente astrusa come potrebbe sembrare, ma che apre al riconoscimento umanistico di teorie che, di volta in volta, sono state oggetto di rifiuto e di critiche feroci e sarcastiche da parte di avversari delle forme di conoscenza precedenti, basta pensare, al riguardo, al giudizio che Schopenhauer– così l'aneddoto recita -, forse in un momento di rancorosa e personale depressione, dette su Hegel: "Un ciarlatano insulso, privo di spirito, schifoso, ripugnante e ignorante, che scribacchiava con incomparabile insolenza, demenza e insensatezza". Forse l'umanesimo di Popper si sarebbe indignato. E mi perdonino i cultori di altre discipline se ho privilegiato, certo minimalisticamente, la musica e la filosofia come essenziali discipline che possono educare alla bellezza. 
Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, a proposito dell’arte dello scrivere diceva:«Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski? 
Credo che Bukowski avesse innato il senso dello scrivere. In altri termini possedeva l'istinto della parola sino a usarla in modo dissacrante senza svilirla con linguismi teatralmente preponderanti. In tal modo, nelle sue opere, la storia ha finito per prevalere non tanto sul linguaggio, quanto su quell'uso retorico o lacrimevole dello stesso di cui tanti autori sono stati spesso vittime. Bukowski non concede nulla all'enfasi sentimentale, le sue parole denotano durezza rigorosa - mi si perdoni l'indubbio ossimoro – e altrettanta dolcezza. Con ciò permettendo alla storia di restare il centro della narrazione ma anche di rivalutare il linguaggio, sino a fargli perdere ogni condizione di supporto e contorno, sì da realizzare una perfetta armonia tra forma e contenuto. Dunque, accettando la lezione bukowskiana, accetteremo la parola come elemento di chiarezza certamente, ma anche rivalutandone la caratteristica creatrice di un ritmo sempre concreto e mai debordante, necessario per conservare il riscontro tra il narrato e i suoi modi espressivi. È il ritmo, dunque, che rende suadente la scrittura, pur non rappresentando il mezzo per suscitare l’interesse o per conoscere lo sviluppo e la conclusione della storia. In altri termini, la storia deve coinvolgere il cuore e il suo bisogno di ascolto della narrazione; il ritmo deve parlare, a mio modo di vedere, alle capacità razionali della mente, stimolando curiosità e piacere semantico. In questa dicotomia dello scrivere è racchiuso, io credo, il fascino del leggere e il risultante amore per lo scrivere. 
«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto infra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Qual è la riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul mondo della lettura e sull’arte dello scrivere? 
Proust fu anche il poeta della cosiddetta memoria involontaria. Allora penso che la sua idea della lettura come "l'iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire" sia una proiezione del lettore nel lettore ideale che non può che riconoscersi nello scrittore ideale come suo maestro: in fondo il sogno di ogni esploratore della conoscenza – sia artistico/letteraria che filosofica -. Un sogno molto ottocentesco direi a cui la critica moderna ha riconosciuto evidentemente un valore estremamente lirico – certo possibile in uno scrittore onnisciente che professava l'intradiegesi intima per raccontarsi al mondo - ma, nello stesso tempo, ne ha evidenziato confini e limiti che lo rendono ormai - in una società che pratica come un mantra il valore dell'informazione a disposizione di tutti, compresi gli scrittori – estremamente circoscritto ed elitario, se non velleitario. Un bello studio di Aldo Gargani (Il sapere senza fondamenti) hamostrato che "il sapere (...) filosofico è una descrizione densa, ossia una raccolta di strumenti, di abiti concettuali, di modelli comportamentali, di condotte operative, di valori e di procedure decisionali inserite nelle forme di vita degli uomini come estensioni dei loro contesti antropologici." E ancora (è sempre Gargani che parla): "... non esiste il sapere genuino, disinteressato, decontestualizzato, ma solo il potere di quel sapere". D'altra parte a smentire Proust, esiste un'ottima dissertazione di Riccardo Campi (Citare la tradizione, Alinea Editrice) che riporta una confessione di Voltaire il quale aveva ammesso "di aver notato due versi dalla tragedia omonima di Corneille (Edipo), aggiungendo poi di non essersi fatto scrupolo di rubarli poiché, dovendo dire la stessa cosa di Corneille gli era impossibile dirla meglio". Dunque un miele già preparato da altri. È vero però che Ezra Pound volle distinguere tra grandi scrittori ladri e cattivi scrittori (ladri anch'essi). Posso esprimere, a valle di questo florilegio di posizioni, una mia idea personale della scrittura: scrivere ha senso solo là dove può spingersi il linguaggio e la sintassi. Ed essenziale, per scrivere, è aver preventivamente letto: molto e di tutto, con dedizione e continuità. Dunque desiderio di “imitazione” in senso generale e non specifico di un testo o di un’opera individuata. 
«La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali.»(Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Molti autori quando parlano di libri e di autori importanti, dicono che leggere un libro e come avere una conversazione con un grande uomo o donna della letteratura e della cultura. Proust sembra dire proprio il contrario. Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è leggere un romanzo, un racconto, un saggio secondo te? 
Non posso, in questo caso, che essere d'accordo con Proust. Pensare che "leggere un libro è come avere una conversazione con un grande della letteratura e della cultura", sia un vezzo che paga un pedaggio a quella moda che propone di fare del dialogo un elemento qualificante e, volendo, elogiabilmente trasgressivo di vecchi conformismi. Ma è scandaloso dire che ormai la vera trasgressività è rappresentata dal conformismo?  Ritengo che la lettura di un romanzo, di un racconto, di un saggio, sia un'operazione intima: un grande autore avrà pur avuto una sua visione del mondo, ma io sono libero di interpretare in modo diverso quel mondo e di averne una visione che le pagine in lettura, se viste come conversazione, possono vanificare se non offrono un'alternativa, proprio perché quella conversazione è praticamente impossibile.
Non credo che i corsi di scrittura siano utili se non a chi li propone a pagamento. Oltretutto, a mio modo di vedere, rappresentano una scorciatoia un po' squallida per imparare a scrivere. Posso dire che sono metafora dei Bignami utilizzati da studenti che poco impegno hanno profuso nello studio? Credo che ci sia una sola scuola per imparare a scrivere, ed è la lettura; una modalità che deve essere ossessiva, sino al punto di tornare più di una volta su testi già letti, anche dopo anni, cercando atmosfere, parole, espressioni, che potrebbero esserci sfuggite o dimenticate. E vorrei esortare ogni aspirante scrittore a profanare i libri che hanno in lettura aggiungendo sui margini laterali delle pagine o sottostanti la stampa, note, osservazioni, domande. Ho sempre avuto l'opinione che un libro intonso sia un libro da tenere in libreria come elemento decorativo, magari perché è dotato di un bel dorso di copertina. Magari ho detto un'ovvietà, ma è un'ovvietà che mi piace! 
Chi sono i tuoi modelli, i tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e che leggi ancora oggi? 
Credo che, come accade a ogni lettore, i modelli possano essere tanti e, soprattutto diversi a seconda del momento, dell'età e dei riferimenti anche casuali in cui ci imbatte. Da ragazzo fui folgorato da William Faulkner, Palme selvagge, Santuario e La paga del soldato su tutti. Fui avvinto da uno dei topos letterari di Faulkner: il desiderio di alcuni dei protagonisti di vivere più vite. Acquistai su una banchetta di libri usati un libricino di un autore allora per me sconosciuto: Molloy di Samuel Beckett. Devo confessare, solo per il costo: 200 lire (vecchie). Il libro fu una rivelazione che mi spinse a comprare, negli anni successivi, tutte le opere di Beckett pubblicate in Italia. Passai rapidamente attraverso Italo Calvino, Franz Kafka che tanto amai per quanto mi procurò un'angoscia profonda, senza per altro che quell'amore ne venisse scalfito. Poi il teatro di Brecht, Le poesie di Rafael Alberti, i romanzi di Albert Camus, di Jean Paul Sartre con la sua trilogia e, soprattutto, con Le parole, che fu il primo libro che riuscì a commuovermi. Aden Arabia di Paul Nizan lo leggevo spesso durante i miei viaggi in Medio Oriente, lo dimenticai in un'oasi: il mio primo atto appena rientrato in Italia fu riacquistarne una copia. Poi Elias Canetti - sicuramente l'autore più difficile che abbia mai affrontato - On the Road, l'opera omnia di ItaloCalvino con, soprattutto, Il castello dei destini incrociati che spesso mi ha fatto venire in mente il film La Ronde di Ophuls per il legame con cui gli eventi sono legati tra loro. Ovviamente, e non poteva essere diversamente, per anni mi sono dedicato a Joyce, leggendo ogni cinque anni Ulysses (e ormai sono alla sesta tornata), Dedalus e il suo alter Ritratto dell'artista da giovane; appassionandomi poi al teatro di William Shakespeare, e all'opera di Borges. E potrei dichiarare uno sviscerato amore per Raymond Quenod, per l'ironia e la capacità di essere surreale restando coi piedi per terra; per Antonio Tabucchi e per tutti i suoi libri. Last but no least, Adolfo Bioy Casares con L'invenzione di Morel, stupenda elegia dedicata alla possibilità di un autore di essere immortale.  Elenco evidentemente riduttivo, ma non poteva essere diversamente.
Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri e tre autori da leggere nei prossimi mesi dicendoci il motivo della tua scelta.
Farenheit 451 di Ray Bradbury (Strabiliante l'invenzione degli uomini-libro come ribellione alla deriva culturale indotta dalla televisione. I fiori blu di Quenod (inimmaginabile nel suo essere fantastica, eppure incredibilmente realistica, la vicenda nella quale il duca D'Auge quando dorme nel suo castello del XIII secolo sogna la vita di Cidrolin, mentre Cidrolin, dormendo su una chiatta ormeggiata sulla Senna ai nostri giorni, a sua volta sogna quella del duca D'Auge). Il grande sonno, in cui Raymond Chandler disegna una delle vicende del suo alter ego ispettore Marlowe, detective deluso e umano nel suo innamorarsi senza speranza, nel cercare la verità e nel subire la sconfitta nel momento stesso della sua vittoria. 
Quali sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi condividere con i nostri lettori? 
Ho in programma la pubblicazione di una decina di racconti, dei romanzi Diari sospesi, 18:30 per caso a Parigi e Delitto in tribunale. Oltre alla ri-presentazione, in circoli e librerie, di romanzi già conosciuti come Con gli occhi di Arianna, Jacob Rohault I giorni di Venezia, L'intruso nelle vecchie stanze e Il venditore di pensieri altrui.
Ti andrebbe di consigliare ai nostri lettori tre film da vedere assolutamente e tre registi da studiare per capire l’arte del cinema? E perché secondo te proprio questi?
Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (I ricordi trasformati in nostalgia senza mai cadere nella trappola dei rimpianti). I 400 colpi (Tenero e poetico omaggio di Francois Truffaut all'adolescenza e a una Parigi solo da amare). Gran Torino di Clint Eastwood (Un ex eroe pistolero finge di sparare ai cattivi mimando con le dita l'azione di un revolver, finendo ironicamente e inevitabilmente ucciso). 
Dove potremo seguirti e come vuoi concludere questa chiacchierata? 
In questo mondo dominato dai social, mi si può seguire su Facebook sulla mia pagina: Paolo Massimo Rossi scrittore. La mia conclusione: ho sempre amato i libri e la lettura. Posso dire che, a memoria d'uomo, mai ho preso sonno senza aver mai letto qualche pagina, sia che fossi in casa, sia in un campo di un deserto orientale, sia in albergo a Parigi.

Paolo Massimo Rossi

Jacob Rohault. I giorni di Venezia

Andrea Giostra

Torna il KAOS festival dell’editoria, della legalità e dell’identità siciliana a Sambuca di Sicilia il 24, 25 e 26 gennaio 2020. Ecco i finalisti

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Sarà Salvatore Ferlita il presidente di giuria di questa edizione. 

Tornano il Kaos e i kaotici, capitanati dal direttore artistico Peppe Zambito, e approdano a Sambuca di Sicilia.
Succede il 24, 25 e 26 gennaio 2020, in un borgo premiato fra i più belli d’Italia, dove prende vita il festival più innovativo, giocoso, capace di contaminazioni, degli ultimi anni.
Si prevedono tre giorni densi di eventi a Palazzo Panitteri.
Una scommessa vinta, questa del KAOS, festival dell’editoria, della legalità e dell’identità siciliana che premia l’impegno di un manipoli di addetti alla cultura, che per ogni allestimento, a titolo volontario, si impegnano a profondere idee, spunti ed entusiasmo, in un concetto di Festival itinerante.
Nel Kaos festival, infatti, sono la cultura, i libri, la musica, il teatro, ad andare in giro, a scegliere, a proporsi, a venire ospitati, edizione dopo edizione, in un Comune della Sicilia differente, un Comune che viene poi coinvolto, amministrazione e cittadini, per fondersi con gli intenti culturali più profondi della manifestazione: ovvero quello di dimostrare che i libri sono vivi e portano bellezza, nel territorio, nelle case, nella vita delle persone.
“Siamo pronti a dare il benvenuto alla carovana di Kaos, per un week-end ricco di appuntamenti culturali di ottimo livello. – fa sapere il Sindaco Leonardo Ciaccio – Per Sambuca rappresenta anche un occasione per far conoscere le nostre bellezze e valorizzare le tante personalità in campo letterario e artistico. La manifestazione prenderà vita nei locali dello storico palazzo Panitteri e coinvolgerà il quartiere saraceno”.
Il presidente della giuria designato per l’edizione 2020 del Kaos Festival, è Salvatore Ferlita, assistant professor di Letteratura italiana contemporanea presso l'Università degli studi di Enna Kore, giornalista, saggista e critico letterario.
A seguire i nomi dei Finalisti che verranno premiati durante la tre giorni.
Sezione Poesia:

Con gli occhi del cuore – Giuseppina Mira
Imbarcate alle stretto - Lorenzo Spirio
Andiamo – Audenzio Sciamé

Sezione Racconti:

Palluzza – Emilia Merenda
Ultima vendemmia del patriarca – Giuseppe Lauricella
Elena intrecciava fiori di sale – Maria Carmela Micciché

Sezione Narrativa:

Usanza di mare di Antonino Rallo Margana editore
Quattordici spine di Rosario Russo. Algra Editore
Nessuno deve tacere di Michele Barbera. Aulino editore
Germogli di porpora di Antonella Vinciguerra. Epsil editore
Ali blu di Maria Concetta De Marco. Medinova edizioni

Svelati già due vincitori, due sezioni che rinnovano la memoria di due personaggi siciliani, l’editore Coppola e la giovane testimone di giustizia Rita Atria.
Premio Salvatore Coppola va ad Alan David Scifo per il libro Sud del sud, un reportage, anche sentimentale, dello stato attuale della zona dell’agrigentino.
Il premio Rita Atria viene assegnato a Clelia Lombardo, per il libro La ragazza che sognava la libertà ed. Il Mulino a Vento, sulla “Storia di Lia Pipitone, giovane vittima della mafia”.
Ricordiamo i giurati Patrizia Iacono, Enza Pecorelli, Giuseppe Mallia e Stella Vella.
A decretare i vincitori delle sezioni poesia e racconti sarà la giuria popolare presieduta da Anna Saracino.
Seguiteci attraverso i social
Instagram: @kaosfestival
Per info e interviste:
Addetto stampa, Daniela Gambino 3288775341

Proscenio, Maria Carolina Salomè a Fattitaliani: mi piace far ridere, sorridere e riflettere. L'intervista

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Ospite della rubrica "Proscenio"Maria Carolina Salomè, autrice dello spettacolo "L'amore è una scusa", in scena al Teatro Arciliuto dal 15 al 26 gennaio. L'intervista di Fattitaliani.

"L'amore è una scusa" in che cosa si contraddistingue rispetto ad altri suoi testi?
Ho scritto solo un altro testo teatrale un monologo che si intitolava “ Sarebbe bastato avere 30 anni nel 2000”che è andato in scena nel 2001 a Roma.
Poi negli ultimi anni ho scritto e diretto un cortometraggio “Rapsodia in Blue” che ha vinto molti premi all’estero.
Ho scritto i testi per lo spettacolo musicale “Mimì per me” un omaggio a Mia Martini, uno spettacolo excursus sulla vita musicale della grande artista e con brani recitati tratti da miei ricordi.
Ho lavorato alla messa in scena del reading musicale “Scusami Cara” canzoni e poesie in via ironica sull’amore.
Ho scritto un adattamento per piccola orchestra, 2 ballerini e voce recitante de “Il racconto dell’Isola Sconosciuta” di Saramago.
E durante le stesure di questi altri spettacoli ho lavorato a “L’Amore è una scusa”.
La Commedia gira intorno all’Amore, all’amicizia e alla musica che è stata il motore portante di tutta la mia vita. Ho proposto l’idea a due amici storici, Federico Scribani e Alessandro Molinari.
È stato un lavoro in costante mutamento, prima doveva essere un reading con canzoni, io  e Federico Scribani che duettavamo tra canzoni e ricordi accompagnati al pianoforte dal Maestro Alessandro Molinari, poi piano piano, incontro dopo incontro ha cominciato a prendere una sua forma e ad un certo punto ha cominciato ad assumere l’aspetto di una commedia vera e propria.
Io scrivevo, poi mi vedevo con loro, sottoponevo le cose scritte, le provavamo per sentire se funzionavano e poi si passava alla scena successiva, spesso i nostri incontri mi davano spunti per scrivere e quando glieli leggevo loro si mettevano a ridere, perchè si sentivano osservati e scoperti.
A volte eravamo più convinti a volte meno, a volte smontavo le cose e provavo a vederle in un altro modo.
Il finale soprattutto è stato un lavorio, più volte sottoposto al vaglio, fino a che un giorno, anzi una notte ho avuto l’immagine giusta, ma non voglio dire di più.
Quale linea di continuità, invece, porta avanti (se c'è)?
A ben guardare quello che accomuna un po’ tutte le cose che ho scritto è la ricerca sui rapporti umani, sull’affettività e sul rapporto d’amore, mi piace indagare in questi campi, cercare quello che c’è tra le pieghe dell’inconscio, mi piace far ridere, sorridere e riflettere.
Com'è avvenuto il suo primo approccio al teatro?
Sono andata fino in terza media a scuola dalle suore, e lì nella grande stanza dove facevamo ginnastica avevamo un palco, con fondali, quinte, sipario rosso.
Quando ci mettevamo in fila finita l’ora di ginnastica io rimanevo ultima per poter sgattaiolare dietro al sipario e guardare il palco, curiosare tra le quinte, rimanevo in silenzio con il fiato sospeso, ricordo ancora l’odore di quel palcoscenico.
Avevo 10 anni quando le suore mi scelsero per interpretare un Paggio in una Cenerentola che si metteva in scena a scuola.
Più che recitare, cantai, ma la cosa mi piacque talmente tanto che alle medie riuscii a convincere la madre superiora e i professori a farmi mettere in scena due commedie “Un regalo di Natale" di Dickens e “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo de Filippo. Quando ci ripenso, resto soprattutto colpita dalla determinazione di quella ragazzina che ero.
Quando scrive un testo nuovo può capitare che i volti dei personaggi prendano man mano la fisionomia di attrici e attori precisi?
Si, sempre un po’ per volta, più limoni personaggi, più cominci a vederne i volti. L’anno scorso ho scritto e diretto il mio primo cortometraggio ”Rapsodia in Blue” quando ho dovuto scegliere l’attore e l’attrice è stato strano sentirgli dire le battute che avevo scritto e strano riuscire a capire se potevano farcela a fare il personaggio che avrvo scritto mi sono ritrovata dall’altra parte della macchina da presa e ho capito che responsabilità grande che è.
Adesso ho scritto un trattamento di un film in cui ci sono 20 protagonisti di tutte le età, man mano che andavo avanti i volti cominciavano a delinearsi sempre di più, ora li conosco come se fossero veri.
Per un autore teatrale qual è il più grande timore quando la regia è firmata da un'altra persona?
La paura che quello che hai scritto venga stravolto nel senso profondo che tu volevo dargli.
Io in questo caso sono stata molto fortunata nel primo monologo che avevo scritto Pietro De Silva fece un lavoro eccelso e in questo spettacolo Massimiliano Vado è stato veramente preciso e attento, è riuscito a contenere gli eccessi e a dare luce ai momenti poetici con grande misura. Quando collabori con persone così diventa un’esperienza fantastica, mai di scontro, ma sempre costruttiva.
Quanto è d'accordo con la seguente citazione e perché: "Quando la sala del teatro è piena, i polmoni dell’attore hanno meno ossigeno. Ma il cuore…" di Nicolae Petrescu Redi?
Quando sei sul palco e ci sei veramente con tutto te stesso, il pubblico ride, respira e piange con te e quando questa magia riesce è veramente una sensazione unica e bellissima.
Mi è capitato di fare piccolissimi gesti o di avere delle intenzioni che pensavo illeggibili da pubblico e invece poi arrivava puntualmente sempre qualcuno a chiedermi perché avevo fatto quel gesto, cosa volevo dire.
Il suo aforisma preferito sul teatro... o uno suo personale...
Non amo gli aforismi.
Assiste sempre alla prima assoluta di un suo lavoro ovviamente se non vi recita? 
Non mi è mai capitato per il momento.
L'ultimo spettacolo visto a teatro? 
Uno Nessuno e Centomila con Enrico Lo Verso con la regia di  Pizzi. Un modo moderno di mettere in scena Pirandello.
Degli attori del passato chi vorrebbe come protagonisti ideali di un suo spettacolo? 
Eduardo, Dario Fo, Mariangela Melato. Perché tutti e tre sapevano far ridere e far piangere
Il miglior testo teatrale in assoluto qual è per lei?
Sogno di una notte di mezza estate.
La migliore critica che vorrebbe ricevere?
La cosa che mi da più soddisfazione è che le persone tornino a casa con la testa piena di domande, riescano a vedere nuovi colori dell’esistenza e soprattutto ritrovino il sorriso è la voglia di relazionarsi con il prossimo.
Quando riesci a far provare emozioni e sensazioni durature che si elaborano nel tempo e nei sogni. In realtà non sono critiche ma sensazioni del pubblico.
La peggiore critica che non vorrebbe mai ricevere?
Uno spettacolo inutile.
C'è un passaggio, una scena che potrebbe sintetizzare in sé il significato e la storia di "L'amore è una scusa "?
Si è nell’ultima scena, sul finale, è stata l’ultima scena che ho scritto” L’amore è l’immagine segreta che da piccoli avevamo dentro agli occhi chiusi mentre facevamo la conta giocando a nascondino, è quella l’immagine che cercheremo per sempre...” non posso andare più avanti di così altrimenti vi svelerei il finale!  Giovanni Zambito.
LO SPETTACOLO
Dopo il brillante successo dello scorso anno, torna sul palcoscenico del Teatro Arciliuto, dal 15 al 26 gennaio, L’AMORE E’ UNA SCUSA, spettacolo scritto da Maria Carolina Salomè, con  Alessandro Molinari, Maria Carolina Salomè, Federico Scribani e la supervisione artistica di Massimiliano Vado.
Cosa succede se tre amici che si conoscono da trent’anni, decidono di incontrarsi per fare musica? E se uno di loro è un anno che non esce di casa, dopo la separazione dalla moglie, mentre l’altro è un attore cantante sempre in fuga da storie d’amore ingarbugliate e il terzo, anzi la terza è un’amica del cuore?
Federico e Carolina cercano di motivare Alessandro, l’amico musicista in un momento di evidente difficoltà esistenziale coinvolgendolo in un progetto per uno spettacolo musicale in cui ripercorreranno i trent’anni di amicizia che li lega finendo inevitabilmente a parlare della gioventù, di ricordi, di sentimenti, di donne, di uomini, di visione maschile e femminile dell’amore, toccando attraverso le canzoni le varie tappe di una storia d’amore, dai suoi felici momenti iniziali, al suo struggente tramonto, in un’atmosfera ironica e delicata, con un altalenarsi continuo fra il romanticismo e il graffiante, per poi comprendere che in fondo l’Amore è solo una scusa per ritrovarsi.
“Nella concezione romana di teatro contemporaneo, spenti i fasti polverosi del passato, si fa spazio una programmazione a moduli, della rappresentazione, poco viziata da storicismi pleonastici e molto incentrata sulla necessità interpretativa degli attori. È chiaramente un segno dei tempi”_ annota Massimiliano Vado.
“I testi nascono dall’esigenza personale e non dalle liste di presentazione al ministero, i progetti si sviluppano attraversando l’entusiasmo di un gruppo e sfruttandone le reali capacità, anziché essere il prolungamento egotico di un adepto fedele del teatro di regia; gli spettacoli che nascono sono operazioni a cuore aperto, non cartellini da timbrare: si fanno perché altrimenti non si respira, li si mette in scena perché altrimenti non può essere.
Aggiungerei che finalmente questo stato delle cose, per quanto doloroso, è una conseguenza di decenni di subordinazione del mondo dello spettacolo all’amoralità di funzionari poco attenti.
Tenendo fede a questo assioma, per cui si creano assembramenti spontanei che mantengono centrale un desiderio di collaborazione, nasce “L’amore è una scusa” che, con incredibile e contagioso ottimismo, azzarda un palese recupero di forme e contenuti appartenuti al secolo scorso ma totalmente validi anche per il teatro contemporaneo. Quel teatro che si vanta di essere e non rappresentare. Quel teatro che conta più sul talento comune che sul capocomicato. Quel teatro utile per cui costituisce reato anche solo pensare di formalizzare ogni deriva. Quel teatro che ti fa andare a teatro. Condizione necessaria e sufficiente è naturalmente quella per cui all’interno di questo gioco rappresentabile trasporti i compagni di giochi di allora, pur proiettando con loro la maturità artistica in cui hanno deciso di nuotare. Basta un pianoforte per recuperare un pezzetto di memoria, un incontro casuale fa nascere nuovi ulteriori brandelli di teatro o di dialogo o di cinema o soltanto respiri comuni. Canzoni che scandiscono le sequenza e che diventano parodie e ricordi maturi, chiacchiere e confronti a rimarginare le distanze di tempo e come unico collante richiesto, farei valere l’amicizia e la confidenza dei tre interpreti. “Bisogna guardare avanti e fidarsi di quello che si sta facendo” suggerisce la protagonista ed è esattamente quello il canale che mi interessa solcare: la pertinenza dei sentimenti, l’inaccessibilità rivelata dell’anima, una miniaturizzazione voluta, programmata. Non serve altro, anzi non c’è spazio per altro. Per far sentire quanto vale un abbraccio basta il fluire di questo spettacolo.”

Una commedia che indaga valori e sentimenti umani, tra musica, ironia ed entusiasmo.

IL POST DELLA MINISTRA LUCIA AZZOLINA

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Ho da poco giurato come Ministra dell’Istruzione nelle mani del Presidente della Repubblica.
Accanto a me c'era mia sorella, una delle persone che mi sono più care e con cui condivido sempre i momenti più importanti. Da oggi comincia un lavoro nuovo al Ministero. Cambia il ruolo, aumentano le responsabilità, ma lo spirito è lo stesso con cui ho avviato la mia attività già da Sottosegretaria: determinazione, ascolto, tanta passione per un mondo che sento mio. E una convinzione: la scuola italiana funziona. Va migliorata, ma non stravolta. La scuola ha bisogno di cura, di semplificazione, di rapidità nelle decisioni, di visione. E di concretezza: farò in modo che il Ministero torni ad essere un punto di riferimento operativo per le scuole. Daremo supporto a chi tutti i giorni sta nelle segreterie, negli uffici di dirigenza, nelle classi e spesso deve correre dietro alla burocrazia, ai ricorsi, alle disfunzioni del sistema. Soprattutto metterò gli studenti al centro di ogni mia decisione. La scuola è per loro. Il lavoro da fare è da subito molto impegnativo. In questi giorni di transizione l’attività al Ministero non si è mai interrotta, perché i dossier lasciati in sospeso erano molti. Alcuni davvero prioritari. Questi sono i dieci punti su cui mi sto già muovendo.

Concorsi per gli insegnanti. Lavoreremo subito ai bandi per la scuola dell’infanzia e primaria, per la secondaria (ordinario e straordinario), per i docenti di religione. Dobbiamo scriverne quattro. Ho già messo al lavoro la mia squadra, in raccordo con le strutture del Ministero. Scriveremo rapidamente i provvedimenti attuativi del decreto scuola. Primi fra tutti il nuovo regolamento per velocizzare la chiamata dei supplenti e quello per la ‘call’ che consentirà a chi vuole subito il ruolo e il contratto a tempo indeterminato di poter andare a insegnare volontariamente anche in un’altra regione diversa dalla propria. Avvieremo quanto prima il tavolo per il rinnovo del contratto: è urgente.  Sostegno: deve partire velocemente il nuovo ciclo di formazione degli insegnanti specializzati. E dobbiamo attuare il decreto legislativo 66/17 sull’inclusione, che mette in campo strumenti nuovi e importantissimi per rispondere alle necessità dei ragazzi con disabilità, che però sono ancora scritti solo sulla carta. Anche qui chiederò rapidità a chi dovrà lavorarci. Esami di Stato del secondo grado, quelli che tutti chiamano Maturità: entro fine mese pubblicheremo le materie della seconda prova. Rispetteremo la scadenza. E poi lavoreremo all’ordinanza sugli Esami, un ‘manuale’ d’uso che va semplificato: oggi è un documento voluminoso e non sempre chiarissimo per le commissioni. Cominciamo da qui a costruire strumenti più agili. Forniremo anche una risposta ai dubbi che stanno emergendo sugli ultimi cambiamenti annunciati. Penso alla scomparsa delle ormai famose buste all’orale. Voglio che i ragazzi abbiano tutte le informazioni di cui hanno bisogno! Educazione civica: alle scuole serve chiarezza. Produrremo le necessarie Linee guida.

Continueremo a lavorare per velocizzare la spesa in materia di edilizia scolastica. I fondi ci sono, vanno spesi presto e bene. Attiverò nei prossimi giorni un tavolo sull’innovazione didattica con dentro docenti e dirigenti esperti: partiremo dalle belle esperienze che già esistono nelle scuole e le porteremo a sistema.  Tutto il personale dovrà essere valorizzato. Prioritario sarà il tema della formazione. Dei dirigenti, dei docenti, ma anche del personale ATA (amministrativo, tecnico e ausiliario) sempre troppo poco considerato. Ho dato disposizione di avviare subito i processi di sburocratizzazione per semplificare quelle pratiche che rendono difficile la vita quotidiana di dirigenti e segreterie scolastiche. Mi metterò al servizio della scuola. Ogni giorno. C’è tanto da fare, ma è il lavoro più bello del mondo.

DODI BATTAGLIA: prosegue il tour "PERLE – Mondi senza età"

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foto di Domenico Fuggiano
Prosegue "PERLE – Mondi senza età", la tournée teatrale di DODI BATTAGLIA. Confermate le date già in cartellone, molte di queste già sold out. Il concerto previsto per venerdì 10 gennaio a Lamezia Terme (CZ) è stato posticipato al 27 febbraio 2020.

A seguito delle dichiarazioni apparse mercoledì 8 gennaio sui social, l'artista ha rilasciato una nuova dichiarazione:

"Dopo tutte le comunicazioni pubblicate mercoledì 8 gennaio, voglio rassicurare e informare tutti i miei fan che mi stavano aspettando per le nuove date del tour teatrale "PERLE – Mondi senza età", che la tournée prosegue regolarmente. Ho siglato un accordo con una nuova agenzia, che si occuperà dei prossimi impegni live. L'agenzia è la Gianni Strano Management, unica autorizzata a rappresentarmi fino alla fine del 2020. Mi scuso anche a nome della band per i disguidi accaduti in questi giorni, non causati dalla nostra volontà”, dichiara Dodi Battaglia.


Queste le date del tour di DODI BATTAGLIA (calendario in aggiornamento)

24 gennaio Venaria Reale (To), Teatro della Concordia
14 febbraio Roma, Teatro Italia
21 febbraio Napoli, Teatro Acacia
27 febbraio Lamezia Terme, Teatro Grandinetti (recupero data 10 gennaio)
29 febbraio Brescia, Teatro Sociale
13 marzo Milano, Auditorium di Milano Fondazione Cariplo
14 marzo Verona, Teatro Nuovo


Per tutte le date sono validi i biglietti già acquistati, anche per la data del 27 Febbraio 2020 a Lamezia Terme.








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EASY FUNK, esce il 10 gennaio il nuovo singolo della band pugliese “SOGNARE È GRATIS”

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Da venerdì 10 gennaio in radio, sulle piattaforme streaming e negli store digitali “Sognare è gratis” ( PlayAudio / Azzurra Music), il nuovo singolo del gruppo pugliese degli Easy Funk.
“Sognare é Gratis” commenta la band “è un invito a credere nei propri sogni, visto che proprio da questi possono nascere nuove possibilità e nuovi obiettivi, particolarmente quando i ritmi della vita risultano sfrenati in un mondo in cui tutto sembra avere un prezzo”.

Il brano è accompagnato dal videoclip ufficiale per la regia di Leoluca Iacoviello“L'intenzione è di far comprendere allo spettatore che i sogni sono più forti della rigidità alla quale la quotidianità a volte ci sottopone.” – commenta il regista – “Il video dunque si apre con una classica ambientazione lavorativa nella quale subito si percepisce la routine quotidiana. Proseguendo, nei protagonisti prende sempre più piede quella irrefrenabile voglia di dar sfogo al proprio istinto e - perché no - attuare una piccola ribellione pur di esternare i propri desideri.
Finché in occasione dell'assenza del capo, riescono a manifestare il proprio volere improvvisando un'euforica festa. Ma il capo torna e in un attimo i quattro tornano con i piedi per terra”.

Easy Funk è un gruppo pugliese di Mola di Bari (BA) composto da Zekka, Meta, Gia Young e Leontino Gobest e in alcuni casi vede la collaborazione (come in questo singolo) di Savina Vitobello in arte Sabreetha. I componenti provengono da un percorso artistico da solisti, ricco di collaborazioni e partecipazioni in diversi progetti nazionali e internazionali, durante i quali hanno acquisito un’esperienza decennale in ambito musicale che li ha portati dagli studi ai palchi e alle radio del Sud Italia. Nel 2015 decidono di canalizzare le loro energie in un unico progetto che unisce il Rap e il Reggae al Funk e all’Elettronica, prendendo il nome Easy Funk dove “Easy” rappresenta il mood con il quale hanno deciso di approcciarsi alla musica ma soprattutto alla vita e “Funk” è il genere che li ha uniti per la prima volta su una composizione di Leontino Gobest, nel brano Con Noi. Dopo vari singoli con Sheewa Records (Miami), nel 2017 decidono di partecipare al Gazzetta Music Contest vincendolo e conquistando sia il pubblico che i membri della giuria, tra i quali Francesco Sarcinafrontman de Le Vibrazioni. Questa vittoria li porta alla realizzazione del loro primo e omonimo album ufficiale pubblicato da Azzurra Music. L’uscita dell’album Easy Funk, nella primavera del 2018, è stata anticipata dal singolo Don’t Stop il cui video ha raggiunto ad oggi 360.000 visualizzazioni. Nell’agosto dello stesso anno gli Easy Funk realizzano il video di Rugiada, ultima traccia dell’album. Sempre pronti a nuove sfide, nel novembre del 2018 gli Easy Funk portano il brano Lobotomia nel contest di Sanremo Giovani, entrando nella rosa dei finalisti che parteciperanno alla kermesse anticamera del Festival di Sanremo. Lobotomia esce quindi come singolo in streaming e nelle radio a fine novembre 2018 riscuotendo un buon consenso e allargando la platea del pubblico del collettivo che consolida la sua base di fan. L’ultimo loro singolo è “Quello che vorrei”, uscito il 13 settembre 2019 dall’inconfondibile impronta elettro funk, contaminata da influenze reggae, un sound coinvolgente sorretto da testi ben concepiti che rinforzano l’impatto delle canzoni. Un abile mix in italiano tra Calvin HarrisDaft Punk, Cosmo Caparezza.









comunicazione e promozione

DALLE ACQUE DAL CHIARINO AI SALOTTI AQUILANI: LA DYNASTY DEL “TORRONE NURZIA”

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di Enrico Cavalli. L’AQUILA - L’immagine di un Abruzzo interno aquilano all’indomani dell’Unità, legato esclusivamente alle fortune della industria armentizia, non pare più storicamente corretta, alla luce di recenti ed approfondite indagini sulla realtà socio-economica locale nel secolo XIX.
Meno prodiga era la natura dal punto di vista dei prodotti della terra, tanto più prende corpo il settore artigianale che interagendo con le attività agricole, determinava le cosiddette protoindustrie. Il censimento generale del Regno d’Italia nel 1861, vedeva ad Aquila(nel 1861 “degli Abruzzi”, dal 1939 “L’Aquila”), la presenza di originarie forme di attività manifatturiere.
Tali opifici non potevano contare su grandi risorse economiche, servendo nelle campagne per integrare il reddito delle classi contadine, eppure, cercavano di rinverdire la grande tradizione artigianale aquilana dei secoli XIII-XV, tanto che come scrisse Niccolò Machiavelli nelle sue “Istorie Fiorentine” (1525, n. 5), la città era la seconda per importanza in tutto il Regno di Napoli. Le piccole imprese aquilane che tentavano di aumentare la produzione, onde uscire dalla dimensione dell’autoconsumo, erano votate al comparto tessile e specificamente laniero, vista la resistenza della struttura armentaria; indubbiamente, sfruttavano le risorse comunque esistenti nel territorio, di qui, oltre alla rilevanza delle ditte di legname, che però eccessivamente depauperavano le ricchezze boschive, si palesava un discreto numero di operatori del settore alimentare, per una sapiente maestria dell’arte culinaria difesa nei secoli, dalle influenze esterne a causa, invero, della orografia del luoghi. Proprio la impervia fisicità della natura nella sua varietà, induceva a delle derrate se non quantitativamente, almeno, qualitativamente peculiari e che caratterizzavano la identità dell’Aquilano, oltre i confini regionali, insomma, non solo destinabili all’autoconsumo.

Nella prima storica rassegna delle industrie dell’Abruzzo Ulteriore II, a cura di uno degli esponenti più insigni del patriziato aquilano, il barone Teodoro Bonanni nel 1888, si apprende della esistenza di opifici a carattere familiare, sottesi alla fabbricazione di rinomati liquori e dolciumi. Entro questo speciale comparto alimentare, un importante opificio per numero di occupati, livello produttivo e visibilità su mercati nazionali ed esteri, era quello dei “Nurzia”. Le origini di questa ditta vanno fatte risalire a Saverio Nurzia, nativo (dal falegname Bernardino) nel 1736, ad Arischia, ad ovest al Gran Sasso, fra le capitali della industria armentizia e del legname di faggio, intagliabile in tini, arche, ed arredi pastorali mirabili in tutto il Napoletano, da una sequela di casati artigiani, quali i Cacchio, Testoni, Gizzi, Capannolo, fautori di non poche avventure imprenditoriali nell’Aquilano, nei tempi a venire. Mentre Arischiaè attraversata da forti dinamiche sociali, per effetto delle progressive rivendicazione dei naturali verso i marchesati dei Cappelli, i detentori del Chiarinoricco di acque, boschi, pascoli, Saverio, gradualmente, domiciliava la sua professione di tinaro e distillatore di erbe montane nel 1769, al quarto amiternino di Aquila, a capo piazza del Duomo; il figlio Gennaro, nato nel 1788, coltivò con successo l’idea di maggiorare la produzione di liquori, ovvero di pregevole china ad uso delle élites cittadine, le protagoniste della ruralizzazione settecentesca post sisma del 1703.

Nel contesto di una Aquila volta a mantenere il ruolo di capitale amministrativa degli Abruzzi, anche dopo la Restaurazione del 1815, la ditta Nurzia conobbe una piccola svolta con Francesco Saverio che nel 1835, su rescritto di Ferdinando II di Borbone, pur continuando a smerciare pregevoli tini, apriva in una piazza del Duomo, valorizzata dall’urbanistica del 1826, una bottega per la vendita al minuto di liquori e dolciumi. La trama commerciale dei Nurzia venne rafforzata dal nipote Ulisse, che ligio alle indicazioni di famiglia, in una Aquila perdente smalto imprenditoriale dopo l’Unità per via di un certo isolamento ferroviario, intese investire somme per l’importazione da piazze nazionali ed estere di derrate alimentari, ovvero, dallo champagne a prodotti esotici, passando per il prezioso cacao.

A fine Ottocento, la “Saverio Nurzia & Figli” poteva vantare un secondo negozio sul Corso Vittorio Emanuele II, vicino all’elitario dal 1865 Circolo Aquilano, e laboratorio a porta Napoli, quasi a sintetizzarsi, in queste due nuove denominazioni dei luoghi di impresa familistica, i cambi di regime avvenuti ad Aquila degli Abruzzi. L’estro dei Nurzia, evidentemente, autosedimentatosi da diuturne fatiche alle falde del Gran Sasso, fra verdi faggeti ed acque limpide, elaborava una sempre più sopraffina arte pasticcera, dalla quale scaturiva il torrone “tenero al cioccolato”. Nota prelibatezza, il torrone, dal tempo delle guerre dei Sanniti contro Roma ed a Tito Livio, secondo una leggenda inventata alle Crociate, più o meno in contaminazione Arabica, di sicuro, in una esclusiva pasta di miele e mandorla bianca, sfornato dai dolciari di Cremona nel 1441, per le nozze fra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti in unione dinastica, sancita dal celeberrimo “Torrazzo”.

Proprio nel ‘400 dorato aquilano sarebbe spuntato un torrone, certo, privo del cacao, stando allo studio dell’Accademico di cucina Luigi Marra nel 2010. Dunque, col torrone si valorizzava un prodotto della cultura artigianale municipale e che grazie alla credibilità dei suoi creatori, incontrava il gusto del pubblico, per la segretezza della ricetta messa a punto da viaggi in Europa, da Ulisse e qualità finissima dei suoi ingredienti naturali; sicché il dolce aquilano fu meritevole di medaglie e riconoscimenti in diverse esposizioni dolciarie della penisola ed in Svizzera, fino a ricevere elogi di papa Pio X, sin lì, probabilmente, aduso allo zuccherato torrone romano. Una piccola parte del successo riscosso dalle prelibatezze Nurzia, ufficialmente con marchio depositato nel 1910, stava nelle forme di presentazione del prodotto, le cui eleganti confezioni recanti una donna dalla foggia in stile parigino, sottesa ad edificare una torre con le scatole di torrone, erano ad opera di artigiani milanesi; mentre, riguardo alle campagne pubblicitarie, ci si rivolgeva a cataloghi realizzati dalle primissime officine cartarie di tutta la penisola, quelle di San Leucio a Caserta.

Nell’era delle palingenesi sociali la ditta Nurzia realizzava, a fronte di ingegni ed aggiornamenti sul campo, una piccola rivoluzione nel comparto dolciario continentale, in quanto la specialità natalizia dominante era il succitato cremonese torrone, ma che per taluni esteti del gusto, era caratterizzabile da progressiva durezza. Invece, l’inconfondibilmente aquilano torrone “tenero al cioccolato”, peraltro fruibile in altre stagioni, nelle sue tre varianti, come dai cataloghi di inizio 900, al cacao “uso Veneto” ed “uso Cremona”, nonché alla vaniglia, si imponeva nelle tavolate delle feste di fine anno degli italiani. Grossi nomi italici del settore alimentare mostravano interesse ad acquistare la ricetta del torrone da Ulisse, che orgogliosamente rifiutava queste profferte, poi, pensando di portare la produzione del dolciume a Milano, onde diffonderlo nel nord-Europa. Nonostante un afflato di risorse economiche importanti, l’aquilanissimo torrone “tenero al cioccolato”, le cui confezioni esibivano oltre al nome di Aquila, anche quello della capitale economica del Paese, scontava diverse difficoltà: la concorrenza degli omologhi cremonesi, disattenzioni gestionali delle distribuzione, forzata diversità degli ingredienti, tipo l’acqua fresca e chiara del Chiarino, il climaterio umido milanese.

Coraggiosamente, Ulisse reputò opportuno dismettere il suo progetto di una fabbrica milanese. Ritornato nel suo ambiente naturale di produzione, tanto negli ingredienti che nelle capacità delle maestranze, il torrone Nurzia al prezzo di lire cinque,  riguadagnava fette di consumatori, grazie ancora, all’uso efficace delle primigenie forme di pubblicità, poiché le scatole ebbero impresse le oleografie del grande pittore Teofilo Patini: celeberrima la riproduzione nel 1882 del quadro con immagine del pastore difensore del gregge dalle incursioni delle aquile ed esposto al Liceo “D.Cotugno” di L’Aquila. Con questo notevole testimonial pittorico si denotava della volontà di accreditare un prodotto tipico regionale, come del resto, facevano altre imprese del rampante comparto dolciario abruzzese, si pensi ai vari adriatici parrozzi e centerbe, griffati dai motti del Vate GabrieleD’Annunzio. Un amico ed allievo dell’artista sangrino, Carlo Patrignani, versatile personaggio dell’attivismo giolittiano locale, già restauratore al Teatro comunale, fu l’affrescatore, alla moda dei café chantant di Parigi, della famosa bottega Nurzia, a capo piazza del Duomo. I contraccolpi del sisma marsicano del gennaio 1915 non furono lievi ad Aquila, per vittime e puntellamenti nel centro storico, inducendo anche la Ditta Nurzia, temporaneamente, al trasferimento dell’attività in una baracca di legno, sempre a piazza del Duomo.

A seguito dell’ingresso italico nella Grande Guerra, come tutte le imprese locali, quella che ormai era invalsa a fabbrica del torrone aquilano, intese contribuire da par suo alla mobilitazione patriottica che vide in guisa interclassista soccorsi ai soldati e sfollati al fronte. Il mutamento di regime, dopo il 28 ottobre 1922, non provocava particolari traumi per la produzione dei torroni Nurzia, punto di vanto della Corporazione provinciale degli imprenditori, sebbene nel settore, a livello locale, bisognasse registrare la concorrenza della rampante “Perugina”, sbarcata in città nel 1933, in un sito scelto personalmente dalla fondatrice dei “Baci”, Luisa Spagnoli, ai Portici del Liceo-Convitto rimodernati nella temperie della Grande Aquila. Difficoltà sopraggiunsero al periodo autarchico per l’impossibilità d’importare il cacao pregiato; tali disagi di approvvigionamento, gradualmente superabili, del resto, all’epoca, per gli italiani, vi erano i consigli ai consumatori di “Petronilla” , al secolo Amalia Foggia-Della Roveresulla Domenica del Corriere, tipo per il cioccolato, un impasto sostitutivo di farina di carrube, nocciola, olio, miele o zucchero, da cui ad esempio, nelle Langhe, nacque la “SuperCrema”, l’antesignana della "Nutella” di Novi Ligure.

Problematiche di surrogati a parte, un decisivo evento nella fabbrica dei Nurziaavvenne nel 1940, quando Ulissecedeva il testimone ai suoi rampolli; la spartizione aziendale, previde in fedecommesso ai nipoti del figlio Tito, lo storico punto a piazza del Duomo, il laboratorio di Porta Napoli e vicina villa liberty; alle figlie Ada e Ines fu fatto dono dei brevetti ed uso del marchio Nurzia per le produzioni dolciarie. Si riusciva a proseguire la produzione del torrone aquilano garantendo una solida attività economica, per il contesto locale, in quel drammatico periodo della seconda guerra mondiale. Con la Ricostruzione post 1945, nella nuova configurazione imprenditoriale dell’Aquilano sotto l’egida del laniero Giuseppe Mori, la municipale industria principe del settore dolciario accentuava il suo processo di produzione: si tentò di caramellare lo zucchero riscaldandolo con la fiamma a gas ed apparecchi sotto vuoto, ma si dovette constatare come il torrone smarrisse il suo inconfondibile sapore, allora tornandosi alla lavorazione del dolciume natalizio per antonomasia imperniata sulla fiamma del faggio arischiese.

L’impresa diversificava la gamma dei prodotti lanciando il “Nurziarello” dalla glassatura finissima in cacao e dai gusti al rhum, vaniglia, caffè, e, la “Ferratella”, un tipico dolce abruzzese la cui ricetta si perde in trame culinarie antichissime stando al gourmet italico Massimo Lelj nel 1933, ma che in salsa aquilana a parte l’uso degli ingredienti tradizionali e la schiacciatura della pasta di anice nei ferri, ebbe la novità della leggerissima copertura in cioccolato. Pur incontrando i favori di una massa di consumatori extra-moenia, vi erano della criticità implicite nella fabbrica nurziana circa la necessità della ristrutturazione di un modello di gestione familiare più al passo coi tempi. Da un lato l’Antica Ditta Fratelli Nurzia di Tito Nurzia con implementazione di macchinari sofisticati per la mescola di cioccolato, ma non per la sua spalmatura da farsi manualmente per non incorrere in deviazioni di gusto; dall’altro, il logo “Sorelle Nurzia di Ada e Ines Nurzia”, con prospettive di incrementi societari. Indubbiamente, su entrambi i fronti, si agitarono dei meccanismi competitivi.

Alla scomparsa del padre nel 1956, le Sorelle Nurzia denunciarono delle campagne commerciali troppo invasive, da parte del loro fratello, ma si addivenne ad un accordo per la vendita del prodotto, da diversificare nelle rispettive confezioni. Chiuso il contenzioso, mentre Tito comprendeva il mutamento di costume dei favolosi anni ’60, accattivandosi la clientela con campagne pubblicitarie eccentriche, ma non prive del gusto d’antan, Inescedette la sua quota societaria ad una affermata rete della grande distribuzione commerciale, non solo abruzzese, facente capo alla famiglia aquilana, da una generazione, dei Farroni, un di cui capostipite, Domenico, fu membro benemerito della Cassa di Risparmio dell’Aquila, dal 1859 la più grande intrapresa del capoluogo di regione.

Il risultato di questi rivoluzionamenti dentro una Ditta con più di un secolo alle spalle, alla fine dei tumultuosi ’70, fu il sorgere di una società in nome collettivo tra le mogli dei tre fratelli Farroni, Romana Calisti, Concetta Giuliani, Marina Nocelli ed Ada Nurziae che all’atto della scomparsa di quest’ultima nel 1979, per volontà dei suoi eredi, si trasformò nella società in accomandita semplice “Ines Nurzia già Sorelle Nurzia”, ottenente premialità su scala mondiale nel 1974, nondimeno, analoghi riconoscimenti andati ai ”Fratelli Nurzia”. Si registrò, negli anni ’80 del benessere sociale diffuso, un aumento della produzione di torroni di cui beneficiarono entrambe i casati recanti il nome Nurzia, tuttavia, il massivo accesso alle grandi catene di distribuzione, come il Gruppo Rinascente, permise alle”Sorelle Nurzia”, un’espansione oltre il tradizionale mercato del Centro Italia, anzi, arrivando Oltreoceano.

Senonché andava in scena la fine della tregua tra le due ditte del torrone aquilano, la di cui comune somiglianza del marchio di classica matrice patiniana e packaging avevano tratto in confusione alcuni forestieri, piuttosto desiderosi di acquistare il prodotto delle “Sorelle”, invece di ritrovarsi in mano quello dei “Fratelli”. Ne derivava l’ordinanza tribunalizia di cessazione dall’uso illegittimo di marchi ed involucri, alla scuderia di Tito che, nel 1985, lasciava in eredità ai figlio superstite Ulisse jr, che a sua volta, cedeva le chiavi del patrimonio aziendale ai giovani rampolli, Natalia e Francesco Saverio jr. Il nuovo corso, mentre la municipalità intitolava una via ad Ulisse Nurzia in quel del polo artigianale di Pile, era più in linea alle trame manageriali dei tempi, nonché con un allargamento del prodotto base, ai sempre più diversificati gusti dei consumatori, specie occasionali, della bottega di piazza del Duomo, risparmiata strutturalmente dall’indicibile terremoto dell’Aquilano, il 6 aprile del 2009, anzi divenendo uno dei simboli della resilienza del capoluogo abruzzese, poiché riaprente i battenti alla festa dell’Immacolata di quell’anno.

Tuttavia, ai fini della messa in antisismicità totale dell’antico stabile, visitato da molti grandi politici della Terra, per il G8 a L’Aquila nel 2009, a poco più di un lustro da quel fatidico frangente, per la prima volta, dopo quasi due secoli, il torrone Nurzia, esce dal suo storico luogo di ideazione, onde accasarsi, certo, temporaneamente, al palazzo dell’ex Standa in corso Federico II. Con lo sviluppo delle moderne forme pubblicitarie, derivanti dalla radiofonia prima, poi dalla televisione, per non dire delle ultime comunicazioni telematiche, la realtà del torrone Nurzia, pur in due rami dialettici commercialmente, via via ha rafforzato la sua posizione nella nicchia di comparto nazionale, forse più in là della realtà omologa in cui si è inserita, anche in ottica di responsabilità sociale d’impresa, con riferimento alla scelta nella catena produttiva di alimenti che non siano impattanti rispetto alle sensibilità ecologiche di varie fasce dei consumatori: si pensi alla ultima versione vegana delle ”Sorelle Nurzia”.

Sulla scìa di questa riconosciuta leadership del torrone “tenero al cioccolato”, localmente e regionalmente, si son registrati più o meno fortunati tentativi di emulazione, ormai, divenendo una consuetudine sempre più radicata, quella di donare alle ricorrenze più importanti, in primis, alle Natalizie, il famoso dolce aquilano, del resto, inserito, su proposta della Regione Abruzzo, nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, nel 2010. Il torrone Nurzia, proiettato sui mercati di risonanza internazionale, eppure mantiene quella tradizione artigianale, originata alle falde del Gran Sasso ed alla base della sua affermazione, e che lustro e visibilità ha conferito dal 1835 all’Aquilano, attraversandone tutte le fasi storiche, nondimeno l’ultima e più difficile sfida, quella della Ricostruzione post-sisma, non disgiungibile da discorsi di valorizzazione identitaria. Ovvero di tutto ciò che è stato il backgroundmateriale e morale di un popolo e delle famiglie di cui esso naturalmente, si compone.

Federico Fellini: tra immaginazione e realtà

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di Riccardo Bramante - Nel 2020 ricorre anche il centesimo anniversario della nascita di Federico Fellini, considerato uno dei maggiori interpreti della cinematografia mondiale e non solo; oltre che grande regista fu anche sceneggiatore, fumettista e scrittore collezionando nell'arco di quasi quaranta anni di attività ben quattro Oscar per i suoi film ed uno alla carriera.

L’evento sarà perciò ricordato attraverso molteplici manifestazioni ed eventi che hanno avuto inizio giustamente dalla sua città natale di Rimini, lo scorso dicembre, con una mostra, “Fellini 100 Genio immortale”, che ha riportato alla ribalta memorie, fotogrammi e suggestioni di quel mondo straordinario da lui creato soprattutto attraverso i suoi film capaci di dirci tutta la verità su noi stessi con il fascino universale del sogno.
Sembra quasi superfluo ripercorrere le tappe della sua carriera da quando, ancora giovanissimo, firmò insieme ad altri le sceneggiature di “Roma città aperta” e “Paisà” di Roberto Rossellini fino al suo esordio nella regia con “Lo sceicco bianco” e poi “I Vitelloni”, “La dolce vita”, che lo consacrò avanti al mondo intero, a “Giulietta degli spiriti”, con protagonista la moglie Giulietta Masina e ancora tanti altri lavori indimenticabili.
Ma la nota immancabile ed indimenticabile presente in tutti i suoi film è quella visionarietà capace non solo di raccontare le storie della propria generazione ma anche di entrare in contatto con le generazioni successive. “Tutto si immagina”, diceva Fellini, “perché una certa tendenza a un’interpretazione fantasiosa delle cose, a una certa visionarietà, credo di averla sempre avuta” ed è facilmente riconoscibile nelle sue creazioni cinematografiche perché per lui il cinema era “il modo più diretto per entrare in competizione con Dio”.
La mostra di Rimini, che terminerà il prossimo 15 marzo, sarà poi ospitata a Roma e successivamente a Los Angeles, Mosca e Berlino.
Sempre a Roma, sua città di adozione, si aprirà il 20 gennaio (esattamente il giorno del 100° compleanno) un’altra mostra nel Salone Vanvitelliano della Biblioteca Angelica in cui verrà presentata una selezione di 30 immagini provenienti dalla Fototeca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia che permetteranno di approfondire la conoscenza dell’uomo Fellini con il suo sguardo e la sua mimica inconfondibile.
Per una curiosa coincidenza proprio quest’anno uscirà anche un interessante documentario prodotto da Mad Entertainment e RAI Cinema a firma di Anselma Dell’Olio “Fellini degli spiriti” in cui viene approfondita la grande passione che Fellini aveva per tutto ciò che rappresentava l’esoterismo, il mistero e la possibilità di altre dimensioni, elementi che già abbiamo trovato in tante sue opere e soprattutto in “Giulietta degli spiriti” per la cui realizzazione si avvalse anche della collaborazione dello psicoanalista Gustavo Rol.

Craxi, la caduta di un uomo di potere

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di Riccardo Bramante  - Dal 9 gennaio è nelle sale italiane il film “Hammamet” di Gianni Amelio sugli ultimi mesi di vita in Tunisia di Bettino Craxi magnificamente interpretato da Pierfrancesco Favino.

È una storia in cui viene approfondita l’immagine di Craxi come uomo più che come politico anche se non vengono dimenticati i passaggi più rilevanti della sua ascesa alla guida del fu Partito Socialista Italiano degli anni ’80 e ’90.
C’è l’angoscia, i rimpianti, la rabbia verso i giudici che lo hanno condannato; rodomontico e sconfitto, gigantesco e fragile, è questo il Craxi al suo crepuscolo che, però, Amelio non riabilita né distrugge facendo anzi di lui una sorta di agiografia di santo laico per nulla pentito di quanto ha fatto in passato e che non arretra assolutamente da quelle che erano sempre state le sue opinioni al riguardo perché “i denari per la politica sono come le armi per la guerra”. E’ l’uomo “totus politicus”, fino ad essere cinico e sprezzante delle regole il Craxi che viene descritto in quanto – come dice- “un politico deve vedere le cose dall’alto; i peccati veniali non importano perché c’è un fine ultimo”; è, in definitiva, un re senza corona, un politico senza poltrona, consapevole ed orgoglioso delle sue azioni passate.
Il film, girato nella vera villa abitata da Craxi ad Hammamet, si avvale della grandiosa interpretazione di un Pierfrancesco Favino che per mesi si è preparato ad interpretare la parte studiando i gesti, il respiro e la stessa andatura caracollante ma allo stesso tempo maestosa del vero Craxi in ciò aiutato anche da un eccezionale trucco che per essere perfettamente eseguito richiedeva ogni volta quasi cinque ore.
E’ un Favino ben diverso dal “Divo” Andreotti o dal secondo “Loro” Berlusconi di Sorrentino o dall’ultimo Buscetta de “Il traditore”: qui si annulla quasi nel personaggio scavando nel suo animo e mettendone a nudo le contraddizioni ma anche la grandezza e se Meryl Streep e Gary Oldmann hanno vinto l’Oscar per le loro interpretazioni rispettivamente di Margareth Thatcher e Winston Churchill Favino non è da meno in questo ruolo.
L’unico appunto che si può fare al film (ma probabilmente è voluto) è che manca una valutazione generale sui guasti che la magistratura politicizzata provocò allora con conseguenze ancora attuali sfociate in una transizione politica non ancora conclusa.


Nuovi Eroi, dal 13 gennaio su Raitre tornano le Storie di piccoli e grandi eroi del nostro tempo

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Dal 13 gennaio dal lunedì al venerdì alle 20:25 su Rai3 torna Nuovi Eroi, il format originale prodotto da Stand by Me e Rai3 con la preziosa collaborazione del Quirinale che racconta le storie di cittadini e cittadine insigniti dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con l'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, in quanto rappresentativi della più alta espressione dei valori che definiscono la Nazione, il suo impegno civile e il forte senso di comunità.
Trenta puntate inedite per trenta straordinarie storie di eroi comuni - spesso sconosciuti al grande pubblico ma esempio virtuoso per tutto il Paese - raccontate attraverso le testimonianze del protagonista e di amici, familiari, colleghi, e da immagini, filmati privati e repertorio di cronaca, perché le loro vicende s’intrecciano molto spesso con momenti cruciali della nostra Storia recente. La voce fuori campo che guida il racconto è quella di Veronica Pivetti, mentre i passaggi decisivi della vita del protagonista di puntata sono ricostruiti attraverso suggestive rievocazioni.
Nella prima settimana (13 – 17 gennaio) vengono raccontate cinque storie di cittadini coraggiosi e determinati, che hanno sposato cause importantiRoberto Morgantini, che nel 2015 decide di creare a Bologna delle “cucine popolari”, non soltanto delle semplici mense per i poveri ma luoghi di incontro, di ritrovo, di cultura per tutti i senzatetto; Suor Elvira Tutolo, una missionaria originaria di Termoli che da 30 anni in Africa dedica la sua vita ai bambini di strada per cercare loro una famiglia e strapparli dalla violenza e dalle armi; Gaetano Fuso, ex poliziotto affetto da SLA, che in Puglia ha fondato un’associazione per permettere alle persone nella sua stessa situazione di andare al mare in una spiaggia adeguatamente attrezzata; Roxana Roman (nella foto), proprietaria del Roxy Bar a Roma che, dopo aver subito un’azione mafiosa, ha deciso di denunciare i Casamonica e, infine, Igor Trocchia, allenatore di una squadra di calcio di Bergamo che è stato il primo in Italia a decidere di ritirare la sua squadra da un torneo dopo che uno dei suoi ragazzi è stato oggetto di insulti razzisti.
In ogni puntata le immagini della consegna dell'Onoreficienza al Merito Civile svoltasi al Quirinale alla presenza del Presidente Mattarella. Un Ordine nazionale, istituito nel 1951, destinato a “ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, dell’economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari’’.
Nuovi Eroi è un format originale prodotto da Stand By Me e Rai3. Produttore creativo Simona Ercolani, capoprogetto Andrea Felici, scritto da Gaspare Baglio, Alessandro Chiappetta, Lorenzo De Alexandris, Raffaele Di Placido, Francesca Mattioli, Nunzia Scala. Regia di Claudio Pisano.

Garibaldi a Fattitaliani: con la musica racconto quello che vedo e vivo. L'intervista canzonata

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È uscito due giorni fa "Il senso della vita" il nuovo singolo del cantautore ligure Garibaldi con l’etichetta Aisha.
Partendo dal suo nome d'arte  (all'anagrafe è Simone Alessio) e dalla nuova canzone, l'artista risponde alle domande di Fattitaliani che comprendono i titoli dei diversi suoi brani. L'intervista canzonata.
Intanto, perché la scelta del nome artistico "Garibaldi"? c'è una ragione precisa, un omaggio al personaggio storico ...?
Il nome d'arte Garibaldi è nato in treno, circa un anno e mezzo fa, mentre tornavo dalle Marche dove avevo partecipato alla tappa di Area Sanremo.
In quell’occasione conobbi molti artisti indipendenti di diverse regioni italiane, dove riscontrai nei loro racconti lo stesso mio sogno ma anche le stesse difficoltà che incontravano nel loro percorso.
Fare tutto da soli con entusiasmo senza nessuno che ti segue è veramente dura, sia a livello economico ma soprattutto mentale; mi ricordo di essermi detto: Ci vorrebbe una persona che ci unisca tutti, perché solo insieme noi potremmo veramente fare qualcosa di grande. Ci vorrebbe un "Garibaldi della musica". 
Per "Il senso della vita" in che maniera ti sei posto a guardare le cose dal punto di vista di un anziano?
Il brano “Il senso della vita” è nato un giorno mentre ero in macchina con mia madre, era una giornata frenetica, avevamo avuto molti impegni, scocciature e imprevisti. Mentre la giornata trascorreva con gli stessi ritmi con cui era iniziata mi sono detto “non vedevo l'ora che questo giorno passi il prima possibile, non ci stiamo godendo il “qui ed ora” quindi ci dimenticheremo presto di tutto questo”. Riflettendo su questo pensiero dissi a mia madre la prima frase del senso della vita: "Il senso della vita ti verrà a trovare, seduto e vecchio al bar, cosa avrai da raccontare?", da questa frase è nata la canzone e l'idea di raccontare la storia di un uomo che, ormai vecchio, seduto ad un tavolo di un bar decide di scrivere una canzone dove poter mettere a parole l’intera sua esistenza, affrontando così, la tematica centrale del brano ‘l’essenza del vivere’.
Per te è la musica che al meglio sintetizza "Il senso della vita"?
Ho sempre avuto un grande desiderio di raccontare quello che vedevo e vivevo, di creare e con la musica ho trovato il mezzo per poterlo fare. Fin dal primo giorno mi sono innamorato della musica, suonavo tutto il giorno chiuso in camera. Quando mi dedico alla musica mi sento vivo, per questo credo sia il senso della mia vita.
Le sonorità di "Ballo Balcano" hanno un'origine, un'ispirazione specifica?
La mia musica s’ispira sia alle origini italiane che a quelle balcaniche, così ho deciso di chiamare il mio genere con un termine antico ormai in disuso: "Balcano". Il tentativo è quello di unire diverse sonorità, il folk con le moderne, creando così un genere a cui è difficile dare una collocazione temporale, rendendola unica.Pensi di tornare a cantare in dialetto ligure come hai fatto in “Mi e Ti”?
Il primo singolo "Mi e Ti" in dialetto ligure era un brano folk, che considero “vintage”. Ho scelto quel genere perché lo sentivo mio e siccome il brano parlava della storia dei miei nonni e delle tradizioni liguri mi piaceva l'idea di ricordarli con una musica popolare tradizionale. Al momento le prossime uscite saranno in lingua italiana, ma in futuro non escludo di tornare a pubblicare un brano in dialetto, anche perché sono molto legato alle tradizioni della mia terra. Non vi posso nascondere che qualche brano è già nel mio cassetto.

“MusicAmore” ha vinto “il premio della Critica” al Festival Nazionale della Melodia. Che cosa in particolare è stato compreso del pezzo?
MusicAmore” è l'ultimo singolo che ho pubblicato prima di iniziare la collaborazione con il mio produttore, il Maestro Umberto Iervolino, di quest’ultimo è stato molto apprezzato il testo  e l'intento della canzone. È stata una bella soddisfazione ricevere questo importante riconoscimento.A che punto è il "Progetto Garibaldi"?
Dopo “Il senso della vita” usciranno altri brani accompagnati da videoclip musicali per poi lanciare spazio al disco che si chiamerà "Progetto Garibaldi". L’uscita del disco lancerà il progetto dal vivo che presenterò in tutta Italia. Giovanni Zambito.



Gran Ballo Russo a Palazzo Brancaccio con Daria Baykalova, Claudia Conte, Metis Di Meo, Vincenzo Vivenzio e tanti altri

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Si è svolta nella splendida ed elegante cornice di Palazzo Brancaccio di Roma, la VIII Edizione del Gran Ballo Russo (la IX, se si conta il Gran Ballo dello Zar organizzato in esclusiva dalla Compagnia Nazionale di Danza Storica nel 2012). 

In un ambiente magico, il Gran Ballo Russo ha visto la partecipazione di oltre 400 ospiti che hanno avuto l’occasione di immergersi in un’atmosfera imperiale, in un ambiente ricercato accompagnato da eccellenti vini, ricche pietanze, spettacoli d’antan e danze storiche. L’edizione 2020 del Gran Ballo Russo è stata dedicata al grande scrittore russo Anton Čechov e al suo capolavoro teatrale “Il giardino dei ciliegi”. 
Nino Graziano Luca, per l’occasione, ha realizzato una breve rivisitazione drammaturgica dell’opera di  Čechov che ha visto protagonisti tre giovani attori che hanno incantato il pubblico presente: DARIA BAYKALOVA (attualmente nella serie Sky ”The New Pope” diretto dal Premio Oscar Paolo Sorrentino) che ha interpretato il personaggio principale di Ljubov, Claudia Conte (attualmente impegnata nella preparazione di tre film) ha vestito i panni di Anja, mentre il ruolo maschile di Lopachin, è stato interpretato dall’attore Vincenzo Vivenzio (già apprezzato in “Il Professor Cenerentolo” di Leonardo Pieraccioni ed “Indovina chi viene a Natale” di Fausto Brizzi. Prossimamente nella fiction “Nero a metà 2”). I costumi delle due protagoniste sono stati realizzati dalla costumista Paola Cozzoli creatrice di costumi teatrali di grande bellezza. Le attrici hanno indossato, inoltre, le calzature della famosa maison italiana “Baldinini” di Gimmi Baldinini e sono state truccate  e pettinate dal gruppo Pablo, art director Gil Cagné con Daniela e Camilla Petrini.
Daria Baykalova
Gli ospiti provenienti dalla Russia, dalla Bulgaria, dall'Italia, dalla Svizzera, dalla Francia, dalla Germania e dall’Argentina hanno avuto l'occasione di ballare il celeberrimo Valzer N. 2 di Shostakovich, la Russian Waltz Quadrille, la MoscowPolka, la Masquerade Quadrille, la Polka Troika, il Russian Figure Waltz, il Pas De Patiner e tanti altri.
L’evento, è stato patrocinato dall’ENITdal Consiglio Internazionale per la Danza Unesco, dall'Assessorato alla Crescita Culturale del Comune di Roma, dalla Camera di Commercio Italo-Russa, dal Centro della Scienza e della Cultura Russa.
Da anni il Ballo è promosso dalla “Compagnia Nazionale di Danza Storica” di Nino Graziano Luca – ideatore ed organizzatore dell’evento insieme a Yulia Bazarova di “Eventi Rome” – promotrice della cultura russa in Italia, giornalista e organizzatrice dell’evento – e dall‘Associazione culturale “Amici della Grande Russia” rappresentata da Paolo Dragonetti de Torres Rutili.L’immagine  dell’evento è il quadro di Natalia Tsarkova, la nota pittrice ufficiale dei Papi, che durante la prima edizione ha ritratto gli ospiti mentre ballavano.
L’VIII Edizione del Gran Ballo Russo ha visto, inoltre, la partecipazione, tra gli altri, della straordinaria ballerina russa MARIA ERMACHKOVA, professionista di livello mondiale, coreografa e maestra di danza a “Ballando con le stelle” su RaiUno che si è esibita nel Valzer The Snowstorm su musica di Svridov e coreografia di Nino Graziano Luca.
La Compagnia Nazionale di Danza Storica oltre ad essere protagonista con tutto il repertorio coreografico del Gran Ballo, ha proposto il proprio Dipartimento di Danza Classica diretto da Debora Bianco con Suite da The Comedians op. 26 di Dmitri Kabalevsky in March e Gavotte.
Le famose arie e romanze sono state cantate dal soprano Elena Martemianova, eletta “Musa di San Pietroburgo” e vincitrice del 1° premio per la per la Migliore Esecuzione di un'aria giordaniana. A mezzanotte gli ospiti, hanno brindato e festeggiato il Capodanno ortodosso con il Libiam da “La Traviata” di Giuseppe Verdi. Mentre la mezzo soprano Ekaterina Marmilo, stella nascente della scena operistica russa ed internazionale ha cantato l’Aria di Laura dal Convitato di Pietra di Aleksandr Dargomyžskij e Che dire, in silenzio di Nikolay Rimskji-Korsakov.
Il vestito di Yulia Bazarova è stato realizzato dallo stilista Luca Cordoli della famosa sartoria Veneziana ”Atelier a Palazzo” in collaborazione con Flavia Mognetti.
Durante la serata, gli ospiti hanno potuto degustare le specialità siciliane del ristorante “Le Sicilianedde”, accompagnati dalla vodka “Russian Standard Vodka”, dallo spumante dell’azienda “Gancia”, e dai vini rossi e bianchi dell'azienda agricola sarda “Montespada”. “Loison”, l'antica pasticceria dal 1930, ha fatto assaggiare agli invitati i loro deliziosi panettoni. L’azienda “La Formaggeria“ che da 30 anni lavora nel mercato di piazza Epiro ha offerto una ricca degustazione dei loro prodotti.
All’evento hanno partecipato come partner: gli alberghi di lusso “Colonna Pevero Hotel”, “l’Hotel Bisos”, il “Country Hotel Mandra Edera”, Is Molas Resort a Pula (prov. di Cagliari) e l’Hotel La Rosa dei Venti a Buggerututti; l’associazione culturale “Russky klub”, il centro stampa “Goprint”, il Gruppo “Valadier” con il loro Ristorante “Valentyne” e l’Azienda “Partecipazione AM”.

Come ogni anno durante la serata si è svolto il concorso per il miglior abito ottocentesco, che ha visto la vittoria di 
Tayisa Bernyk al primo posto.  I vincitori sono stati premiati con weekend, vini bianchi e rossi, panettoni e altre specialità delle aziende partner.

All’evento, presenti numerosi rappresentanti istituzionali italiani, così come l’élite italiana e russa del mondo intellettuale, artistico ed imprenditoriale, tra cui il Principe Guglielmo Giovanelli Marconi e sua moglie Vittoria Ludovica Rubini, il principe Giulio Torlonia con Victoria Torlonia, la principessa Maria Pia Ruspoli, Massimo Mallucci de Mulucci.
 
Un ringraziamento, infine, va ad Andrea Azzarone di Palazzo Brancaccio.

NOVE: "LITTLE BIG ITALY", TORNA FRANCESCO PANELLA CON I NUOVI EPISODI

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“C’è qualcosa di magico in ogni viaggio: arrivi in un posto e ti manca prima ancora di ripartire. Ma se ti lasci andare, se ti guardi bene intorno, ogni luogo è quello giusto. In ogni angolo del mondo puoi trovare un modo per sentirti a casa. ‘Casa’ per un italiano è soprattutto ‘cibo’ e nel mondo si possono trovare migliaia di ristoranti italiani...ma quanti sono quelli davvero autentici?”

Dal 13 gennaio ogni lunedì alle 21:25 sul NOVEFRANCESCO PANELLA, che dall’Antica pesa di Roma ha portato la tradizione di famiglia a New York e sta raccogliendo un successo dopo l’altro con il suo nuovo ristorante Feroce a Manhattan, volerà alla ricerca di vero cibo italiano dal Nord al Centro America (Hollywood, New Jersey, Los Angeles, Dallas, Queens, San Diego, Panama, Porto Rico, Santo Domingo, Cartagena, New York). Si affiderà agli italiani che vivono all’estero per trovare i ristoranti che meritano il titolo di “LITTLE BIG ITALY”.

In ogni città Francesco incontrerà 3 italiani all’estero, concorrenti della sfida, che lo porteranno a mangiare nel loro ristorante del cuore, dove ritrovare il sapore di casa. Con una sfida all’ultimo piatto, assaggeranno e voteranno 3 categorie: la scelta dell’expat, il piatto forte dello chef e un fuori menù scelto da Francesco. Alla fine di ogni pasto ci saranno i voti, da 1 a 5 gettoni per ogni piatto, e Francesco contribuirà al risultato finale con un voto in più, quello dedicato all’italianità che potrà fare la differenza nella proclamazione del vincitore. In palio per l’expat una bonus card valida un anno per mangiare gratis nel suo ristorante del cuore!

In questa terza edizione, del format originale Banijay Italia, ci sarà una novità: nella rubrica “Italians love it” il pubblico da casa avrà una miniguida fatta dagli expat su cosa fare, vedere o mangiare in città. Cosa piace agli italiani della città che li ospita? Dove si ritrovano? In quale luogo si sentono a casa? Con il loro racconto si potrà assaporare l’anima della città.

“LITTLE BIG ITALY” (12 episodi da 60 minuti), è prodotto da Banijay Italia per Discovery ItaliaIl programma sarà disponibile in anteprima su Dplay Plus dal 6 gennaio e successivamente anche su Dplay (sul sito dplay.com – o su App Store o Google Play).

Foto di Raoul Beltrame

PRESADIRETTA Rai3, con “ATTACCO AL PAPA” al via la nuova stagione dal 13 gennaio

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PresaDiretta torna su Rai 3 a partire da lunedì 13 gennaio, alle 21.20, con 9 appuntamenti in prima serata.

Per la ripresa del nuovo ciclo di PresaDiretta9 appuntamenti in prima serata su Rai3Riccardo Iacona affronta un tema davvero eccezionale: il pontificato di Papa Bergoglio con la puntata  “ATTACCO AL PAPA”.

Le parole e le scelte di Papa Francesco in questi anni hanno toccato temi sensibili come la morale sessuale, il cambiamento climatico e la crisi ambientale, i migranti,  i giovani, la giustizia sociale, il dialogo tra le religioni, i toni e le parole della politica. E non è un caso che Papa Bergoglio venga considerato il più amato tra i leader mondiali, il Papa dell’ascolto, il Papa della misericordia.
La potente spinta riformatrice del pontificato di Papa Francesco ha lasciato un segno. Perché allora il Papa è sotto l’attacco del “fuoco amico” all’interno dello stesso mondo cattolico? Chi sono e che cosa vogliono i suoi potenti nemici?

PresaDiretta è andata negli Stati Uniti, a capire perché una parte della potentissima Chiesa cattolica americana si è apertamente schierata contro le scelte di Papa Francesco, in difesa della conservazione della dottrina.
PresaDiretta ha attraversato le comunità cattoliche di base, come quella di Sant’Egidio, che mettono in pratica nella vita di tutti i giorni la Chiesa di cui parla Papa Bergoglio.
Infine è stata in Germania, dove ha raccolto l’ansia riformatrice della Curia e dei fedeli tedeschi. Lì i cattolici chiedono da tempo una vera e propria rivoluzione, donne diacono, apertura verso coppie divorziate e gay, basta con i dogmi, la Chiesa deve cambiare.

Nel nuovo ciclo di inchieste tanti i temi approfonditi: le prossime elezioni in Emilia Romagnail mercato dei dati, un business miliardario. Fino a che punto siamo spiati? E ancora, un viaggio all’interno del cratere a 3 anni dal terremoto nel centro Italia, per capire a che punto è la ricostruzione. La nostra scuola, perché è tanto noiosa per gli studenti italiani? Infine PresaDiretta sulle tracce dei soldi che entrano nelle casse dei partiti.
PresaDiretta torna a occuparsi del futuro del pianeta: il mondo degli insetti sempre più a rischio e con loro anche il nostro cibo; l’ecosistema dei mari, che producono ossigeno e assorbono C02, che stiamo cambiando per sempre e l’e-commerce che ha radicalmente modificato il nostro modo di consumare e di vivere. Con quali conseguenze?

“ATTACCO AL PAPA” è un racconto di Riccardo Iacona con Raffaella Pusceddu, Luigi Mastropaolo, Massimiliano Torchia, Andrea Vignali
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