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Letteratura, 400 anni fa la morte di Shakespeare e Cervantes, esploratori dell'umano

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Quattrocento anni fa morivano William Shakespeare e Miguel de Cervantes. Le celebrazioni coincidono con l’odierna Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, patrocinata dall’Unesco. Il servizio di Giada Aquilino:

Amleto, Otello, Re Lear... Prendono nuova forma i personaggi più celebri nati dal genio di William Shakespeare. A 400 anni dalla morte, che si pensa sia avvenuta nel 1616 nella città natale di Stratford-upon-Avon, in Gran Bretagna, il 23 aprile, peraltro presunto giorno di nascita, si moltiplicano le celebrazioni: dalla metropolitana di Londra che ha rinominato le proprie fermate dedicandole ai personaggi cantati dal “Bardo”, agli spettacoli lungo il Tamigi, fino al di là della Manica, dove in Vaticano per la prima volta nella storia è stata ospitata la rappresentazione di un testo di Shakespeare, Amleto, allestito nei giorni scorsi a Palazzo della Cancelleria dalla compagnia del Globe Theatre. Un’opera, quella del drammaturgo e poeta britannico, riconosciuta come universale. Ce ne parla Piero Boitani, docente di Letterature comparate all’Università La Sapienza di Roma e autore del libro “Il Vangelo secondo Shakespeare”:
R. – L’estensione enorme della comprensione umana rende la sua opera universale. Cioè Shakespeare affronta tutti gli aspetti dell’uomo e naturalmente della donna, sia quelli positivi sia negativi: dunque abbiamo le tragedie, le commedie e anche i drammi romanzeschi alla fine della sua vita, in cui viene esplorato, all’interno dell’umano, anche l’aspetto divino, superiore.
D. – Dove nasce la sua capacità di essere sempre nostro contemporaneo?
R. – Proprio in questa comprensione straordinaria dell’umano. “Noi siamo ancora sue creature”, diceva Harold Bloom: cioè siamo ancora i personaggi che lui ha creato; basti pensare ad Amleto oppure ad Otello, in certi estremi, o a Iago, l’incarnazione del male. Cioè, noi siamo fatti in quella maniera e lui lo ha capito quattro secoli fa!
D. – Si può parlare di una visione teologica nel teatro shakespeariano?
R. – Quando si parla dell’uomo e lo si mette in scena, si mette in scena tutte le sue dimensioni e quindi anche quella teologica. Shakespeare non è un teologo, nel senso che non è come Dante, che ha imparato la teologia formale nelle scuole, ha frequentato, ha studiato i teologi. Shakespeare no: però negli ultimi drammi, per esempio, è chiarissimo che si sta rivolgendo a qualcosa di superiore. E quindi la teologia la dobbiamo ricavare noi in un certo senso, guardando e leggendo quei drammi. Ma la visione teologica c’è.
D. – Forse, non a caso, Paolo VI nel 1964, celebrando i 400 anni dalla nascita parlò della “profonda umanità” di Shakespeare…
R. – Esattamente. Paolo VI, che per il centenario dantesco scrisse una cosa bellissima, conosceva bene i grandi scrittori e sapeva che c’era una differenza tra i due. Però gli ultimi drammi di Shakespeare – “Il racconto di inverno”, “Pericle”; “La tempesta”; “Cimbelino” – sono pezzi di teatro altrettanto profondi, come quelli di Dante, e rappresentano il nuovo mondo, quello che viene dopo o con il Rinascimento.
D. – Paolo VI disse che le trame delle sue opere teatrali sono per l’uomo moderno “un promemoria salutare che Dio esiste, che c’è una vita dopo questa vita”: perché?
R. – Il primo Shakespeare è abbastanza umanista, esclusivamente umanista direi. Però, certo, con “Amleto” comincia a guardare al di là: “Amleto” è un dramma della maturità, dei primi del ‘600, che poi è stato lungo nella gestazione, e in quest’opera c’è alla fine una luce. Nella seconda parte, sembra che Amleto sia cambiato e che non pensi più a quella dimensione della morte che, come diceva lui, è il “continente inesplorato da dove nessuno è mai ritornato”. E invece nella seconda parte, c’è una citazione tratta dal Vangelo di Matteo: si dice che c’è una “provvidenza” speciale nella caduta di un passero. E quindi lì evidentemente Shakespeare sta guardando altrove, anche se non raggiunge ancora la luce, la vede da lontano. Poi, negli ultimi drammi, ho sempre pensato che ci fosse - per così dire - una Buona Novella, ci fossero delle buone notizie: intanto finiscono bene questi drammi, al contrario delle tragedie precedenti, ma poi le riunioni e i riconoscimenti tra padri e figli, così come tra mariti e mogli, certamente alludono a qualcosa di più alto.
D. – Per questo lei ha scritto che le opere di Shakespeare possono considerarsi il suo Vangelo?
R. – Queste ultime sì, il suo “Vangelo personale”, perché Shakespeare non è uno che aderisce a una religione piuttosto che a un’altra: certamente è cristiano e su questo non c’è dubbio. Non sappiamo se fosse anglicano o cattolico: lui crea una sua religione - un suo credo - che è certamente evangelico e cristiano, in cui dà il suo messaggio, che però è un messaggio importantissimo. Il fatto che il mondo venga salvato dalle donne, dalle figlie o dalle mogli mi sembra già un messaggio importante…
D. – In questi giorni si ricorda anche l’anniversario della morte dello spagnolo Miguel de Cervantes, avvenuta il 22 aprile 1616. Anche Papa Francesco, in un’intervista alla “Civiltà Cattolica”, lo ha ricordato qualche tempo fa. C’è un aspetto che lega l’autore del “Don Chisciotte” con Shakespeare?
R. – C’è un dramma perduto - si intitolava “Cardenio” - che, se è stato scritto, come sembra, da Shakespeare insieme a John Fletcher, viene proprio da una storia del “Don Chisciotte”. Ma non sappiamo con certezza. Cervantes comunque è un altro straordinario esploratore dell’umano: forse più dell’umano che del divino, perché è più scherzoso e ironico di Shakespeare, anche dello Shakespeare finale, per così dire. Poi Cervantes non è soltanto l’autore del “Don Chisciotte”, ma anche di un romanzo che sembra abbia scritto in vecchiaia, “Le peripezie di Persile e Sigismonda”, che è una storia romanzesca che comincia nell’estremo nord dell’Europa e finisce a Roma: c’è una storia che finisce bene, quindi con la provvidenza che agisce. Giada Aquilino, Radio Vaticana, Radiogiornale del 23 aprile 2016.

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