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La vita in due valigie, il libro di Anca Martinas per capire chi fugge. L'intervista: riflessione sull’essenziale della vita in chiave empatica

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Se fossimo costretti a lasciare improvvisamente la nostra quotidianità e a fuggire in poche ore con solo due valigie cosa porteremmo con noi? Parte da questa domanda il libro “La vita in due valigie” scritto da Anca Martinas, giornalista del Programma romeno della Radio Vaticana, e pubblicato in collaborazione con la Fondazione Migrantes. Il volume è stato presentato nella Sala Marconi della nostra emittente. Il servizio di Marina Tomarro: 

Racchiudere la propria vita in due valigie in poche ore ed essere costretti a scappare in un Paese diverso dal nostro, con lingue ed usanze differenti, e tenere presente che solo quelle poche cose raccolte ci ricorderanno chi siamo e da dove siamo arrivati. E’ questa l’idea da cui parte il libro “La vita in due valigie”, dove l’obiettivo rimane una riflessione profonda su cosa porteremmo via se fossimo costretti ad un'ipotetica fuga salvavita, come ci racconta l’autrice Anca Martinas:

R. – Il libro vuole essere una riflessione sull’essenziale della vita in chiave empatica con chi è costretto a lasciare le proprie terre non per una scelta di vita, non per necessità di lavoro ma perché costretti più delle volte da situazioni di guerra e di persecuzioni. È una riflessione in chiave empatica. Mi sono fatta questa domanda: “Che cosa metterei in solo due valigie nella malaugurata ipotesi di dover scappare?”. Una domanda che, per così dire, mi ha tirato per la manica sia per la situazione che stiamo vivendo sia per una serie di letture. È una domanda che coinvolge e vorrei che fosse una linea guida per una riflessione anche per altre persone affinché si arrivi ad un pensiero e poi a qualche gesto di vicinanza e di sostegno a queste persone. Le domande servono per riuscire a capire. È un tentativo di “metterci nei panni di”. È questo quello che propone “La vita in due valigie”.

Tante sono le storie che vengono svelate attraverso le pagine di questo libro, da quella di una donna che va via da Bucarest, inizialmente per studiare l’arpa in Italia, per poi trovare le sue risposte e la sua strada nella chiamata del Signore, a chi come il giornalista Angelo Paoluzi che ricorda quando da bambino fu costretto a scappare dal suo paese in Abruzzo fino a Roma a causa della guerra o padre Jean Pierre Yammine responsabile della redazione in lingua araba della Radio Vaticana che racconta un episodio legato alla sua infanzia, quando una notte la sua città fu bombardata e lui e la sua famiglia si ritrovarono a fuggire dalla loro casa e a cercare riparo in un rifugio antiaereo dove avrebbero vissuto al buio per tre anni. Durante la presentazione, diverse anche le testimonianze di chi ha vissuto questo dolore di essere strappato dalla propria terra, come quella del  giornalista camerunense Franck Tayodjo, arrivato in Italia dopo essere riuscito a fuggire dalle dure carceri del suo Paese, dove era finito solo per il lavoro che svolgeva, oggi è riuscito ad avere lo status di rifugiato politico. E quindi ancora oggi sono milioni le persone che devono allontanarsi contro la loro volontà dai loro Paesi d’origine come ha spiegato mons. Giancarlo Perego, nominato recentemente dal Papa nuovo arcivescovo della diocesi di Ferrara e per molti anni direttore generale della Fondazione Migrantes:

R. - Questo racconto serve per rimandare sostanzialmente alla storia dei 65 milioni di persone rifugiate nel mondo nell’ultimo anno, costretti a partire immediatamente e a fare la stessa scelta da almeno 35 Paesi in guerra, 60 Paesi dove non c’è la possibilità di essere liberi sul piano della propria esperienza politica e religiosa, e almeno 40 Paesi dove sono avvenuti disastri ambientali. Quindi, sostanzialmente, ci si immedesima nella storia dei richiedenti asilo e dei rifugiati che oggi sono arrivati e tra noi, persone di cui, tante volte, non ricordiamo il disagio di dover lasciare tutto per un viaggio che tante volte non si sa dove terminerà.

D. - Qual è il modo migliore per accoglierli in maniera più umana?

R. – Certamente, come ha ripetuto anche il Papa recentemente, un’accoglienza diffusa di tipo famigliare non in grandi centri, cercare da subito un processo che li aiuti ad essere autonomi sul territorio e presentare anche gli aspetti positivi che portano. Non dimentichiamo che questi sono giovani, una risorsa importante per un’Italia che è tra i Paesi più vecchi al mondo. Tante volte rischiamo di considerarli semplicemente degli esseri passivi da assistere, mentre da subito dovrebbero trovare storie di lavoro, di borse lavoro, di lavori socialmente utili, di servizi civili per i giovani e di valorizzazione di una professionalità che hanno maturato nel loro Paese di origine. Marina Tomarro, Radio Vaticana, Radiogiornale del 2 marzo 2017.

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