- Papà… una delle tue solite storie pallose? –
- Se io avessi usato, alla tua età, quella parola, davanti a mio padre, a quest’ora, mi sarei già preso un sacco di botte. Io te la racconto, Giorgio, questa storia. Poi tu decidi, se è scocciante, o meno. E’ una storia di questi giorni, e proprio oggi, te la devo raccontare: un po’ l’ho letta sul giornale, un po’ me l’hanno raccontata, e un po’ ho capito di averla incrociata anche io. E quindi te la racconto per come l’ho ricostruita. Per come penso siano andate davvero le cose.
- Va bene papà, se proprio vuoi, racconta. Però fai una cosa veloce, che, tra un po’, esco di casa e vado a prendere Stefania.
“Questa storia comincia tra i tavoli del nuovo locale che hanno aperto, da un paio di mesi, su Corso Vittorio Emanuele. Non mi ricordo bene se lì, una volta, c’era la sede della Camera di Commercio, o di una banca, magari confondo i palazzi. Magari è il palazzo lì vicino. Dopo tutto questo tempo, tante cose non me le ricordo più bene. Comunque è lì, quasi a metà del Corso, davanti ai portici tutti puntellati. C’è questo palazzotto rifatto, che sta in mezzo ad altri due palazzi; uno, tutto puntellato per l’inizio dei lavori, e, l’altro invece, che sembra abbandonato dal 6 aprile 2009, quello dove all’angolo c’era il negozio di articoli sportivi.
Lucio, il protagonista di questa storia, ci faceva il cameriere, in questo locale nuovo.
Tu lo sai, perché magari ti capita di passarci, o ci sei andato, non so, che il locale apre intorno alle sei di sera, per gli aperitivi. E poi chiude intorno alle due, le tre del mattino.
Lucio, quel pomeriggio, stava passando lo straccio per terra. Come sempre, prima dell’orario di apertura. Era piegato con lo spazzolone, fino agli angoli, cercando di pulire e lavare bene dappertutto. Le sedie erano ribaltate, sui tavoli. E Lucio passava lo straccio, iniziando dall’interno del locale, e indietro, fin verso la porta d’ingresso. Poi, alla fine, quando il pavimento era tutto bagnato, Lucio si fermava fuori, col secchio dell’acqua sporca accanto, appena oltre l’ingresso del locale, sul Corso. Fumava una sigaretta, guardando le persone che passavano.
Spesso poche. Dentro la polvere della ricostruzione.
Lucio doveva aspettare che si asciugasse, il locale. Ogni tanto, canticchiava una vecchia canzone, sottovoce. Io lo sentivo. “Bella la vita, che se ne va, un fiore, un cielo, la tua ricca povertà, il pane caldo, la tua poesia, tu che stringevi la tua mano nella mia… “
Quella melodia, si confondeva con i rumori dei muratori che finivano il lavoro al cantiere, e tornavano a casa. Furgoni che andavano via. Recinzioni metalliche che stridevano sulle pietre, quando venivano trascinate per chiudere ogni varco ai palazzi in ristrutturazione. Voci di tanti colori. Saluti, risate e stanchezza. Sigarette accese e passi trascinati di scarpe antinfortunistiche. Qualche bottiglia di birra buttata via.
Una volta che tutto s’era asciugato, Lucio rientrava nel locale, e iniziava ad apparecchiare i tavoli.
Tirava giù le sedie, poggiava la tovaglia sul piano del tavolo, e i fazzoletti di carta.
E quindi, andava a cambiarsi.
Dovrebbe esserci una specie di bugigattolo, stretto, sul retro della sala del locale.
Lì Lucio, indossava i suoi pantaloni neri, un gilet nero, aderente. La camicia bianca, pulita e stirata. E scarpe comode. Sono importanti, i piedi, per un cameriere. Sono sicuro che si dava uno sguardo veloce ad un piccolo specchietto appeso ad un muro e s’aggiustava i capelli con un po’ di gel. Era sempre ben acconciato, Lucio, quando lo vedevo. E, credo, ci tenesse ad essere sempre a posto. Doveva avere sui trent’anni, Lucio.
A quel punto, Lucio, doveva solo aspettare che iniziassero ad arrivare i clienti.
All’inizio, soprattutto persone di una certa età, un po’ come me e tua madre, per capirci, che escono per ritrovare un po’ di fresco serale aquilano, guardarsi intorno per vedere quanti cambiamenti ci sono, nelle strade fatte mille volte, e perché devono andare a cena ad un orario decente, le sette e mezzo, le otto di sera più o meno.
E poi cominciavano ad arrivare i più giovani, che non avevano problemi ad andare a cena alle dieci di sera, o a non cenare per niente, continuando a farsi il giro dei bar, e a prendere aperitivi e patatine fino alle quattro del mattino.
La sera che ti voglio raccontare, io stavo passeggiando, da solo.
Risalivo dalla Villa Comunale, lungo corso Federico II, verso piazza del Duomo.
Guardavo il palazzo dove c’era una delle sedi della Provincia di L’Aquila. Quello dopo il Cinema Massimo ancora tutto crepato, che hanno recintato da poco, ma i lavori di ristrutturazione, ancora non cominciano.
Il palazzo che hanno rifatto interamente, facendo finta che il 6 aprile non sia accaduto nulla. Tutto esattamente uguale a prima, all’esterno, nelle intenzioni, eppure l’impressione che ne ho io, è di totale falsità. Il profilo dei negozi, al piano terra, ad esempio, cambia totalmente la percezione di come erano i vecchi ingressi e le vecchie vetrine. E’ come se avessero deciso di mettere gli oblò ad una antica nave romana. Ce l’hai presente, sì? “
- Sì papà –
“Quando avevano abbattuto il vecchio palazzo, e si vedeva la chiesa, dietro, e il cielo, avevo quasi pensato che sarebbe stato bello se avessero lasciato vuoto lì, invece di provare a rifare l’architettura del 1930, come se fossimo in un teatro, e dovessimo costruire un fondale, uno scenario, talmente tanto realistico, che finisce col farti cercare continuamente, con gli occhi, dove sia l’inganno. E non c’è più, sull’angolo di via Sant’Agostino, la sede dell’Istituto di Studi Storici della Resistenza.
Comunque.
Ad un certo punto vedo due uomini. Camminavano a passetti veloci. Sembravano una di quelle vecchie comiche del muto, in bianco e nero, con il passo un po’ più accelerato della realtà. E proprio per questo, avevano catturato la mia attenzione, mentre stavo per entrare in Piazza del Duomo.
E, lì, quando la strada stretta diventa sguardo che si apre, vedo che, tutti e due, tenendosi sottobraccio, iniziano a camminare, ancor più velocemente, in diagonale, a sinistra, diretti verso la fontana a capo Piazza.
Arrivati al bordo della fontana, e con lo sguardo rivolto verso la statua di bronzo del D’Intino, messa lì intorno al 1930, quella dell’uomo nudo, uguale all’altra che sta giù, davanti al Duomo, a piè di Piazza, uno dei due grida, rivolto proprio alla statua:
- Saluto al Duce! –
E l’altro, subito risponde:
- Eia, eia, eia… -
E tutti e due insieme, col braccio destro alzato nel saluto romano:
- Alalà! –
Io ero senza parole. Come se qualcuno m’avesse dato, senza alcuna ragione, uno schiaffo in piena faccia.
Il cuore aveva cominciato a battermi forte. Avrei voluto urlargli addosso tutta la mia rabbia per quello che avevano fatto, e tutto il mio disgusto per la loro puerile stupidità.
Avevano voluto marchiare, quella statua, con i colori del tempo in cui era stata costruita.
Riportandola indietro, all’orrore della dittatura. Come se il tempo, tutto, fino ad oggi, fosse stato cancellato.
Un gesto violentissimo, che mi fece paura. E che mi fece guardare intorno, nella piazza, per capire se altri avessero visto quel che avevo visto io. E non vedevo nessuno intorno. Ma le pietre, il bronzo, mi erano diventate ostili, truci.
Sentivo, lontano, i due uomini ridere. No, sghignazzare.
Avrei voluto affrontarli. Ma sono stato vile, e non l’ho fatto. Dentro la testa mi giravano le immagini a cui siamo abituati a pensare, quando ricordiamo la Resistenza, il fascismo. Vecchie foto in bianco e nero di uomini fucilati, o impiccati; di ragazzi sorridenti col fucile in mano per le strade delle città liberate; volti di donna, fieri, che marciavano, libere.
Ma nessuna di quelle immagini mi dava la forza di andare a guardarli in faccia. Avevo solo paura della violenza, e sono stato zitto.
Mi sono consolato pensando a cosa si fossero ridotti. A dichiarare il loro crimine ad una statua di uomo nudo, che era stata messa di spalle, ad un’altra statua di uomo nudo, perché magari, all’epoca, il regime temeva due uomini nudi che si guardassero nel volto, o, peggio, uno che guardasse le spalle dell’altro; rischiavano di non esser poi così maschi come dovevano essere, per la propaganda.
Ma era una consolazione forzata. Un voler trovare un modo per autogiustificarmi. Per provare a saziare il senso di colpa che sentivo.
Quei due uomini, proprio loro due, li vidi arrivare davanti al locale dove lavorava Lucio.
Erano attesi. Erano due ragazze, ad aspettarli. Una mora, italiana, e una bionda, bellissima, m’è sembrata, da lontano, che, dai giornali, ho saputo si chiamava Sabine, ed era di origini tedesche
E fin qui, c’è la storia che posso raccontarti d’aver visto in prima persona. Il resto della storia, è fatto di alcuni cenni che mi ha raccontato un amico, che era lì, quella sera, a bere una birra, e di quel che poi ha pubblicato la stampa.
Per Lucio, era un tavolo da quattro.
S’era avvicinato, col suo taccuino e la penna, per prendere la comanda.
Quando aveva capito che la ragazza bionda era tedesca, le aveva chiesto, nella sua lingua, cosa desiderasse. Sabine gli aveva sorriso, sorpresa di sentir parlare in tedesco qualcuno a L’Aquila, e aveva chiesto una birra scura, “bock”: le birre scure, in Germania, non so perché, le chiamano con una parola che significa “caprone”.
Lucio non conosceva il tedesco, in realtà: aveva solo imparato qualche frase, orecchiandola da alcuni camerieri di Caserta, con i quali aveva lavorato in passato, e che facevano abitualmente la stagione invernale nelle birrerie tedesche.
Questo contatto, però, in tedesco, aveva evidentemente fatto colpo sulla ragazza, che, durante la serata, lo seguiva con lo sguardo, mentre Lucio continuava il suo lavoro. Dal canto suo, Lucio, s’era accorto, degli sguardi della ragazza. E, ogni volta che poteva, li ricambiava, sorridendo.
Il mio amico m’ha raccontato che, insomma, bastava essere un po’ attenti, per capire che qualcosa stava succedendo.
Lucio, sembrava un pianeta che girasse intorno al sole, accostandosi il più possibile ad ogni giro d’orbita, incurante del fatto che, avvicinarsi troppo, avrebbe potuto bruciarlo.
La ragazza, dal canto suo, sembrava illuminarsi, ogni volta che i suoi occhi azzurrissimi incontravano quelli di Lucio. Sorrideva, abbassando leggermente il capo, come per nascondere un pensiero segreto, e sembrava dimenticare tutte le persone che erano con lei al tavolo, tutte le persone che erano nel locale. Il mondo intero.
Il mio amico mi ha raccontato, che, ad un certo punto, la ragazza, mentre si recava alla toilette, era passata vicino a Lucio e, forse, gli avevo lasciato tra le mani un bigliettino, magari il suo numero di cellulare.
Il mio amico non è sicuro, sia andata proprio così. Non ha visto benissimo. Magari lo ha solo intuito, dentro la confusione del locale, vedendo qualche movimento strano.
Però è sicuro che, verso le undici di sera, i quattro sono andati via dal loro tavolo. E, circa un’ora dopo, Lucio, ha chiesto al proprietario del locale di poter andar via subito. Molto prima del normale orario di chiusura.
Era una di quelle sere aquilane.
Diventata severa, dopo un giorno caldo, dove batteva il sole; non all’ombra, chè lì faceva sempre freschetto, alimentato dal vento.
Bisogna sempre mettersi un giubbotto forte, per queste serate.
Tu non lo fai quasi mai, e ti raffreddi. “
- Papà… -
“Si vedeva il cielo libero, e le stelle tutte, in cielo, illuminavano la notte; in montagna, o nei pezzi di Centro Storico che non hanno più luci che sporcano i raggi di stella.
Io non lo so, come siano andate effettivamente le cose.
Però so che, si capisce da quel che scrivono i giornali, ad un certo punto, Lucio e Sabine erano insieme nell’auto di Lucio. Una vecchia panda. E si erano andati a nascondere nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale, a Pile. Sai quel parcheggio col pavimento scivolosissimo quando piove.
Si erano messi proprio in fondo, dalla parte opposta dell’entrata, sulla destra, dietro ad una delle colonne. Magari si stavano baciando, e, per questo, non si sono accorti che era arrivata una grossa BMW color grigio metallizzato.
Ne sono scesi i due uomini che erano con Sabine al bar. Quelli che avevo visto io, prima, in piazza, davanti alla statua.
Uno di loro aveva una grossa spranga di ferro, con la quale ha spaccato, prima il parabrezza della panda, e, subito dopo, il vetro di uno dei finestrini. Ci ha infilato la mano dentro, e ha tolto la sicura che avevano messo alle portiere. Ha afferrato Lucio, aiutato dall’altro, e lo hanno trascinato fuori dall’automobile.
Io immagino che abbiano iniziato ad urlargli qualcosa, sicuramente ad insultarlo.
E, con la spranga, gli hanno spaccato varie costole. E lo hanno preso a calci, e a pugni.
Ci doveva essere parecchio sangue, per terra, quando è arrivata una volante della Polizia. Magari richiamata da qualcuno della sorveglianza del centro commerciale che teneva d’occhio le telecamere del parcheggio.
Provo a raccontarti la scena.
Lucio doveva essere per terra, senza conoscenza ormai. La Polizia, armi alla mano, deve aver intimato ai due uomini di fermarsi, di allontanarsi dal corpo esanime di Lucio, di alzare le mani.
Sabine, doveva essere uscita, dalla panda.
Uno dei due uomini si è avvicinato ad uno dei poliziotti e si è presentato.
Avrà detto di essere il responsabile cittadino di Avanguardia Tradizionalista.
E avrà detto che stavano difendendo la ragazza, perché Lucio la stava violentando.
Sabine, non deve aver detto nulla.
Un poliziotto avrà detto all’altro, che l’uomo di Avanguardia Tradizionalista era conosciuto e credibile.
Allora hanno preso Lucio, di peso, e lo hanno caricato sulla volante, portandolo via.
Forse lo hanno ripulito, nel parcheggio sotterraneo, il sangue di Lucio. Non lo so. “
- Papà, scusa, non ho capito. Ma, la storia, com’è finita? –
- Ecco. Il punto è proprio questo, Giorgio.
Domani è il 25 aprile. E questa storia, non è ancora finita.
Luigi Fiammata