Fëdor Michajlovič Dostoevskij, “Il Grande Inquisitore”, cp. V de “I fratelli Karamàzov”, Il Messaggero Russo, Mosca, 1879.
Introdotto con una striminzita ma efficace presentazione di Gerardo Colombo, il quinto capitolo del romanzo di Dostoevskij “I fratelli Karamàzov”, denominato "Il Grande Inquisitore", ci riporta alla vera essenza della prospettiva cristiana, quella originaria di Gesù Cristo, del libero arbitrio, della fede, e della libertà di pensiero.
Nel XXI Secolo tutto questo è stato inesorabilmente compromesso da sovrastrutture lobbistiche, dal potere incontrastato dell'economia globale, dalle multinazionali che puntano esclusivamente al profitto economico, dal disinteresse assoluto per l'umanità che popola la terra da parte di chi detiene il potere reale e temporale, da modelli di società che ci vengono iniettati con impatti multi-mediatici e sub-liminali, ma anche assai espliciti, che quotidianamente vessano i cittadini e la popolazione che inducono impietosamente a vedere nel consumismo più irrazionale l'unico vero obiettivo per raggiungere “la felicità terrena", che perciò si rivelerà fugace ed effimera.
L'obiettivo de “La ricerca della felicità” da parte dell’uomo di ogni tempo, è sempre stato uno degli scopi prioritari di tutte le scienze, di tutte le discipline artistiche, di tutte le filosofie, di tutte le religioni, da quando l'Uomo ha messo piede sulla terra.
Il Capitolo V de “I fratelli Karamàzov” di Dostoevskij, nella sostanza narrativa e contenutistica vera, rappresenta un vero e proprio saggio dell'Autore da leggere e rileggere a cadenze naturali e temporali. Il “soliloquio del Grande Inquisitore”, una volta fatto prigioniero Gesù Cristo, possiede un'intensità, una grandezza, un bombardamento di sani ed inquietanti stimoli intellettuali e meditativi, che ne fanno uno degli scritti più destrutturanti, profondi ed interessanti dell'opera omnia di Dostoevskij.
In questo capitolo Dostoevskij gioca abilmente di fantasia ed immagina che millecinquecento anni dopo la crocifissione e la morte fisica, Gesù Cristo, il Nostro Signore cristiano, torni sulla terra e tranquillamente passeggi per le strade di Madrid dove il Grande Inquisitore si sta preparando, davanti al popolo terrorizzato, ma al contempo eccitato da tanta violenza sanguinaria, per dare alle fiamme, con un immenso rogo, un centinaio di donne e di uomini giudicati da lui stesso eretici, senza alcun possibile contraddittorio, se non la confessione sotto tortura, e quindi: infedeli, miscredenti, senza fede in Dio, senza Dio!
L'arrivo di Gesù in mezzo alla folla accalcata nella piazza provoca un immediato silenzio, il popolo lo riconosce ed è pronto a seguirlo senza esitazione.
Il Grande Inquisitore vede la scena, riconosce Gesù, ne rimane scosso, osserva la folla che è pronta a seguire il Signore, poi, senza esitazione alcuna ordina alle sue guardie di catturare ed arrestare Gesù che viene immediatamente condotto di peso in una cella solitaria, buia, umida, fredda dove il Grande Inquisitore si appresterà a condannare cinicamente a morte il Messia giustificando il suo atto con una tesi d'accusa incontrastata, potente, delirante, quando reale nella sua logica contemporanea di allora, del '500, momento di massima decadenza morale ed etica della Chiesa Cristiana e della Chiesa Cattolica insieme, e dei suoi potenti rappresentanti talari, come di oggi, che stiamo vivendo il XXI Secolo dalla nascita di Cristo.
Quello che nella narrazione è un soliloquio del Grande Inquisitore, in questo V Capitolo del romanzo de “I fratelli Karamàzov”, rappresenta nella realtà il pensiero religioso-filosofico di Dostoevskij rispetto alla morale ed all'etica Cristiana e Cattolica insieme: la libertà dell'Uomo si riduce ad una fede che non ammette dogmi e miracoli; che non ha gerarchie e autorità; assolutamente contrapposta ad una sorta di dottrina che sottrae all'Uomo la consapevolezza di sé e il suo libero arbitrio in nome di un mandato superiore e divino.
Ma il discorso di Dostoevskij, come solo i Grandissimi narratori sanno fare, rimane aperto, non segna alcuna strada, non dà alcuna soluzione, lascia il suo lettore nel dubbio che può risolvere solo e soltanto vestendo i panni del “suo libero arbitrio”: Vivere affidandosi alla fede e demandando ogni accadimento della propria vita ad una volontà superiore incontrastata ed incontrastabile? Ovvero, decidere di essere padroni del proprio destino da costruire giorno dopo giorno con le nostre scelte, talvolta giuste, talaltra sbagliate, ma che ci faranno imparare dalla nostra esperienza di esseri umani qual è il percorso della nostra vita che ci renderà Uomini e Donne degni di questo pianeta terra?
Il saggio Dostoevskij, se così mi si è concesso definirlo, alla luce dei terroristici accadimenti di estremismo religioso degli ultimi anni, che hanno sparso sangue innocente nelle strade delle capitali occidentali e medio-orientali, è attuale più che mai, è contemporaneo più che mai, è da leggere più che mai. Solo i grandi visionari sanno leggere il futuro, anche se spesso la loro lettura sfugge alla loro stessa comprensione, alla loro sapienza, alla loro analisi della vita sulla terra. A noi amanti della conoscenza e della sapienza, non resta che provare ad attingere nelle pagine dei grandi narratori quello che potrebbe darci occhi nuovi; ovvero, come scrisse Umberto Eco: «Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito. Perché la lettura è un'immortalità all'indietro.»
Buona lettura.
ANDREA GIOSTRA.
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