Si celebra oggi in tutto il mondo la giornata internazionale sulla sindrome di Down, una condizione genetica che secondo l’Oms colpisce un nuovo nato su mille. In Italia le persone down sono 40 mila con un’età media di 25 anni e un’aspettativa di vita di 62 anni. L’obiettivo è quello di arrivare ad un’inclusione sociale piena e ad esercitare pienamente i propri diritti, come testimonia il tema della giornata “My voice, my community”. Sul significato di queste parole Michele Raviart ha intervistato Anna Contardi, coordinatrice nazionale dell’Associazione Italiana Persone Down:
R. – In questi anni la Giornata Mondiale è sempre stata un modo per far conoscere chi sono le persone con la sindrome di Down. “My Voice, my community” vuole mettere al centro il loro protagonismo possibile, l’importanza di ascoltarli e sentire la loro voce, di pensare che anche loro hanno qualcosa da dire. Non è un caso che a livello europeo noi abbiamo declinato questo motto sul “diritto di voto”, cioè "il mio voto conta, io ci sono, statemi a sentire, ho qualcosa da dire".
D. – A che punto siamo con l’assistenza e la garanzia dei diritti delle persone Down in Italia, e nel resto del mondo?
R. – Io credo che in Italia abbiamo fatto un percorso legislativo importante, che è partito dall’integrazione scolastica per poi arrivare alla legge sull’inserimento lavorativo. E anche la legge sul “Dopo di Noi” ha voluto arricchire il tema dei diritti e della risposta ai bisogni delle persone con sindrome di Down. Sul piano legislativo ci siamo, però mancano ancora risorse sufficienti per garantire che le leggi siano applicate. Peraltro, suscita un minimo di perplessità l’ultimo decreto sui livelli essenziali di assistenza, che noi temiamo porti via una centralità e un’attenzione alla presa in carico delle persone con sindrome di Down, dal momento che da malattia rara sono stati de-classificati a “malattie croniche”. Sul piano internazionale ci si muove verso l’inclusione, però ci sono ancora tanti, tanti Paesi in cui il diritto, per esempio, a frequentare nella scuola di tutti è ancora molto negato. Soltanto l’Italia e la Spagna hanno delle leggi che prevedono l’inclusione totale. Nella maggior parte degli altri Paesi del mondo c’è ancora il doppio canale: scuole di tutti e scuole speciali, con, di volta in volta, l’orientamento dei bambini da una o dall’altra parte. Per non parlare poi di alcuni Paesi dove è assolutamente prevalente la scuola speciale, come il Giappone o i Paesi dell’Oriente.
D. – Come procede l’accompagnamento dopo la scuola, nell’età adulta?
R. – Noi andiamo verso una popolazione sempre più adulta. Uno dei temi più scottanti in questo momento è garantire risorse e servizi per la vita fuori casa, perché le persone con la sindrome di Down sopravvivranno ai loro genitori e quindi avranno bisogno di soluzioni residenziali per il “dopo di noi”. Ma ci saranno anche delle persone che, una volta diventate adulte, avranno semplicemente voglia o bisogno di uscire di casa. Ora, negli ultimi anni si è lavorato moltissimo per rendere le persone con sindrome di Down il più autonome possibile. Per cui sicuramente qualcosa è cambiato: oggi noi vediamo persone che prendono l’autobus da sole; anche alcune esperienze di gruppi-appartamento a bassa intensità assistenziale. Però è vero che una persona con sindrome di Down, che – ricordiamo – è una persona con un grado variabile di disabilità intellettiva ma che comunque c’è, ha bisogno di alcuni supporti che lo accompagnino un po’ in tutta la vita. Dopo la scuola si aprono due scenari importanti. Uno è il tema del lavoro: soltanto il tredici percento delle persone con sindrome di Down, peraltro di quelle in contatto con le associazioni, lavorava; potrebbero invece essere molte di più queste persone. E ovviamente, a quelle persone che hanno delle difficoltà tali da non poter andare al lavoro, bisogna comunque garantire delle attività occupazionali che permettano loro di vivere serenamente la loro vita. E su questo c’è ancora tanto da fare. Poi c’è tutti il tema, come dicevo prima, delle soluzioni residenziali. È chiaro che serve un grosso impegno da parte dell’Ente pubblico, nel senso che non è pensabile che una famiglia da sola riesca a sopportare i costi di una soluzione residenziale.
D. – Cosa c’è ancora da fare per un’integrazione?
R. – Una cosa importante è lavorare sulle autonomie possibili da costruire già in adolescenza; perché è chiaro che se noi arriviamo con degli adulti che fanno coprire i loro bisogni di base – il lavarsi, il vestirsi, il cucinare un pasto o andare a fare la spesa – e hanno bisogno di un supporto soltanto per quanto riguarda l’organizzazione del lungo periodo, dei budget economici, e della gestione degli imprevisti, necessiteremmo di meno risorse economiche per rispondere ai loro bisogni di casa. Se invece non lavoriamo quando sono più giovani per permettere loro di avere più autonomia, dovremmo pensare a delle strutture con delle figure di assistenza tutto il giorno.
D. – Spesso si usa l’eufemismo di “bisogni speciali” per le persone afflitte dalla sindrome di Down…
R. – Si parla di bisogni speciale, ma in realtà i bisogni delle persone con la sindrome di Down sono quelli normali, sono i bisogni di tutti: noi abbiamo parlato di scuola, di lavoro, di casa, di affetti, cioè dei bisogni di qualsiasi essere umano, però con tutti i supporti che sono necessari per fare questo. Michele Raviart, Radio Vaticana, Radiogiornale del 21 marzo 2017.