Oggi ricorre la Giornata nazionale dedicata all’alfabeto Braille. A due secoli dalla sua nascita, il Braille è un sistema che aiuta più di 30 milioni di ciechi nel mondo. Ma quali sono oggi le problematiche principali per chi, in particolare i giovani, hanno difficoltà visive? Stefano Leszczynski lo ha chiesto a Katia Caravello, membro del consiglio direttivo dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti:
R. – La problematica principale è costituita dal fatto che i libri di testo per i ragazzi, quindi per gli studenti, arrivano sempre con tempi piuttosto lunghi, per tutta una serie di motivi, e quindi questo vuol dire che i ragazzi non possono, al primo giorno di scuola, avere a disposizione lo stesso materiale che hanno i loro compagni di scuola.
D. – Nel 2017, ha ancora senso parlare di scrittura Braille, quindi una scrittura meccanografica, manuale, complicata anche a vederla, quando ci sono tanti ausili tecnologici che invece sono più facili da usare, forse?
R. – Assolutamente sì, nel senso che per un bambino che nasce cieco o gravemente ipovedente o comunque lo è dalla tenerissima età, il Braille è fondamentale: come per un bambino vedente imparare a leggere e scrivere con carta e penna. Quindi la tecnologia sicuramente è un aiuto, assolutamente integrabile con il sistema Braille che deve però essere tassativamente insegnato sempre. Infatti, uno dei problemi è che spesso gli insegnanti di sostegno non sanno il Braille e sostengono che si possa sostituire con la tecnologia. Ma ciò vuol dire che questi ragazzi accedono alla cultura innanzitutto in maniera assolutamente mediata, mentre il Braille permette di farlo in piena autonomia; e poi, solo con l’audio rischiano di non sapere l’ortografia delle parole, perché la sintesi vocale non rende così immediato rendersi conto di come sia scritta una parola.
D. – Infatti dobbiamo sottolineare che il Braille, tra l’altro, non è una lingua, ma è un sistema di scrittura dell’alfabeto latino …
R. – Certamente. Il Braille è un alfabeto: infatti si parla di “sistema Braille” o “codice Braille”, ma è sostanzialmente la parola più semplice per capire cos’è “alfabeto”. Ogni combinazione dei sei puntini – otto per il Braille informatico – di cui è composto, formano una singola lettera o un segno di punteggiatura … Però, non è una lingua: assolutamente no.
D. – Ancora oggi possiamo dire che la questione del Braille attiene alla questione dell’alfabetizzazione, in buona sostanza …
R. – Certamente. Poi è sicuramente molto utile anche nella quotidianità, quindi è consigliabile che un minimo lo imparino anche le persone che perdono la vista in età adulta, se non anziana, perché magari non arriveranno a leggerlo con la fluidità di chi l’ha imparato da piccolo, però per quelle che sono le utilità nella vita quotidiana, come le scritte che ci sono sulle scatole dei medicinali o per etichettare delle cose, è assolutamente utile.
D. – Ci può raccontare qual è stata la sua principale difficoltà nell’apprendere il Braille, tra l’altro in età adulta?
R. – E’ stato innanzitutto un blocco psicologico, nel senso che il Braille è come il bastone bianco, è l’etichetta, è uno dei segni distintivi della cecità. Quindi, quando si è ancora in una fase in cui il trauma non è stato ancora elaborato, approcciarsi al Braille non è semplice. Detto questo, la difficoltà principale non è tanto imparare a scriverlo, perché alla fine è abbastanza semplice, scriverlo; è leggerlo. Nel senso che il mio tatto comunque non è affinato quanto il tatto di una persona che è non vedente dalla nascita; per cui, ci vuole tanto, tanto, tanto esercizio … Stefano Leszczynski, Radio Vaticana, Radiogiornale del 21 febbraio 2017.