Al Teatro dei Conciatori, dal 31 gennaio al 12 febbraio, Luca De Bei proporrà in prima nazionale il suo nuovo lavoro tratto da Franz Kafka: KAFKA IL DIGIUNATORE, diretto ed interpretato dallo stesso Luca De Bei
1924: nel sanatorio di Kierling, non lontano da Vienna, Kafka, ridotto a un mucchietto di ossa e assistito dalla compagna Dora, si illude forse di poter lottare contro la tubercolosi di cui è malato da anni e riacquistare un po’ di forze. Ha con sé le bozze, da correggere e mandare all’editore, del suo ultimo racconto “Il digiunatore” e proprio questo racconto è uno dei pochissimi scritti che, nel suo testamento, ha chiesto all’amico Max Brod di non distruggere. Qualcosa di profondo lo lega infatti al personaggio del digiunatore di professione che, nella sua gabbia e davanti agli spettatori, resta aggrappato con caparbietà al suo dimagrire fino ai limiti dell’esistere, fino al raggiungimento del sottile confine tra la vita e la morte. Il protagonista del racconto sa bene però che i tempi cambiano, che il pubblico desidera spettacoli sempre più nuovi e avvincenti e che il suo mestiere è destinato all’oblìo. Forse è per questo che Franz Kafka, che si sente così marginale alla vita, così estraneo al mondo e persino a se stesso, sente profondamente la similitudine con questo “fenomeno da baraccone” scritturato da un circo ma diverso e distante da tutto ciò che lo circonda.
Intervista a Luca De Bei
D: Come mai uno spettacolo su Kafka?
R: Amo da sempre questo autore che, a volte e a torto, è giudicato un autore “difficile” e “pesante”. In realtà i suoi testi sono pervasi da molta ironia e da una forte teatralità. La sua modernità è indiscutibile, visto che pochi come lui sono stati capaci di scendere negli abissi dell’animo umano e al contempo di inquadrare l’umana esistenza in un contesto surreale e spersonalizzante. Una condizione, questa, che appartiene fortemente all’uomo contemporaneo. Non per niente Kafka è considerato uno di quegli scrittori che più di altri ha saputo guardare lontano e analizzare e anticipare le contraddizioni e l’angoscia dell’uomo di oggi.
D: Come mai proprio “Un digiunatore”, uno dei suoi racconti meno conosciuti?
R: “Un digiunatore” è uno degli ultimi racconti scritti da Kafka e proprio pochi giorni prima di morire ne stava correggendo le bozze per un’edizione. Nella famosa lettera all’amico Max Brod, quella in cui chiede di distruggere quasi tutto ciò che ha scritto, tra i pochissimi testi che sceglie di salvare c’è proprio “Un Digiunatore”, segno che Kafka lo riteneva uno dei suoi lavori migliori, o comunque – lui sempre così esigente con se stesso e con la propria scrittura - qualcosa che egli giudicava compiuto. In effetti “Un digiunatore” è un racconto che sfiora la perfezione. Nel personaggio di un digiunatore di professione, di quelli che una volta erano esibiti come fenomeni da baraccone, c’è tutta la poesia, la struggente condizione umana di chi si sente diverso, lontano, incompreso; dell’artista che insegue caparbiamente la propria arte, a dispetto del favore o meno del pubblico.
D: Il digiunatore come un artista, dunque?
R: Sì, in questo caso il digiunatore sente di avere un ruolo importante, di poter, attraverso il suo digiuno, essere testimone di una capacità umana quasi sovrannaturale. E’ a suo modo un funambolo, un indagatore dei limiti umani, qualcuno - oggi diremmo un performer – che sceglie di fare della sua vita un’opera d’arte.
D: Cosa ha a che fare tutto questo con il teatro?
R: Beh, oggi come oggi il teatro sta vivendo un momento difficilissimo, che assomiglia incredibilmente e tristemente al momento che, nel racconto, vive lo spettacolo del digiuno inteso come esibizione pubblica. Il digiunatore sente che i gusti del pubblico stanno cambiando, che la gente ricerca emozioni e divertimenti sempre nuovi, sempre più coinvolgenti, e capisce che il suo mestiere rischia di cadere nell’oblìo e scomparire.
D: Anche il Teatro è dunque destinato a sparire?
R: Non dico questo, ma di certo il teatro è un’esperienza che non può prescindere dalla presenza “dal vivo”, del rapporto unico spettatore-attore, del “qui e ora”, e dell’unicità dell’esperienza. È insomma uno spettacolo che chiede un’attenzione, un coinvolgimento particolare, diverso dalla spersonalizzante presenza di uno schermo televisivo, tanto per fare un esempio. Il Teatro è un rapporto 1:1, è senza tempo, e il rischio che venga spazzato via dalla standardizzazione, dalla serialità, dalla ricerca di esperienze sempre più virtuali e sempre meno reali non è da sottovalutare. Ma è anche vero che il teatro ha dalla sua una capacità unica di coinvolgimento, che difficilmente può essere sostituita e che probabilmente lo preserverà dallo scomparire.
D: Nello spettacolo si parla solo del digiunatore del racconto?
R: No, lo spettacolo mette in scena anche Kafka stesso, e ne segue le ultime settimane di vita (quando si trovava nel sanatorio presso Vienna, dove si spense nel giugno 1924), e poi torna indietro nel tempo, attraverso i suoi ricordi. Si affrontano così temi come il ruolo della scrittura, la sua amata-odiata Praga, il rapporto conflittuale con il padre e il rapporto con Dora Diamant, la sua ultima compagna. Ma lo spettacolo affronta anche tematiche inusuali legate a Kafka come per esempio l’attrazione che egli aveva per il cinema.
D: Kafka andava al cinema, dunque?
R: Certo, sono giunte fino a noi alcune annotazioni a questo proposito. Kafka aveva un atteggiamento inizialmente diffidente verso la settima arte, ma poi, quasi suo malgrado, ne fu conquistato. Sappiamo persino quali furono i film che gli piacquero di più e di cui parlava volentieri.
D: Dopo “Il Grande Mago”, il testo di Vittorio Moroni in cui hai interpretato un uomo di oggi che decide di cambiare sesso con tutte le problematiche legate alla paternità e al rapporto con la sua donna, ora ti cimenti in un personaggio “antico” come Kafka. Come mai?
R: Perché Kafka era un’anima profonda, contraddittoria. Un uomo sensibilissimo, certo tormentato, ma allo stesso tempo con un lato fanciullesco e persino giocoso. Un grande poeta, un intellettuale, ma anche un uomo che amava la semplicità, la sobrietà, che ricercava una purezza spirituale. Un uomo con una fantasia illimitata e un grande mondo interiore. Un uomo, insomma, che racchiude in sé tanti aspetti diversi. Per un attore dunque un personaggio che contiene davvero grandi possibilità interpretative.
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