È nelle librerie l’ultima opera di Alessandro D'Avenia: “L'arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita”, edizioni Mondadori.
Lo scrittore siciliano, 39 anni, docente di latino e greco al liceo classico, attraverso le parole del poeta di Recanati, dialoga con i suoi lettori percorrendo le tre stagioni della vita: le inquietudini dell'adolescente, le prove della maturità e la conquista della fedeltà a se stessi attraverso l'accettazione dei limiti. Già insignito del Premio Internazionale Padre Pino Puglisi per l'impegno mostrato a favore dei giovani, D’Avenia compie un viaggio esistenziale che sollecita ognuno a trovare il senso profondo della vita, proprio come ha cercato di fare il celebre Giacomo. Ma come vedere nelle parole di Leopardi una chiave di salvezza, quando generalmente è noto come il poeta del pessimismo per eccellenza? Adriana Masotti lo ha chiesto allo stesso D'Avenia:R. – La parola “salvezza” può sembrare una parola fuori posto nel sottotitolo di questo libro, ma io sono convinto di un fatto: che ogni uomo, in particolare poi chi ha a che fare con le parole, debba fare i conti con questo tema e cioè come si fa a salvare la vita umana dal continuo cadere della stessa e da tutto ciò che è collegato alla morte, perché quella sarà la caduta definitiva. E Leopardi – secondo me – è stato uno straordinario combattente per cercare di strappare una soluzione a questo problema della salvezza con i mezzi esclusivamente umani, perché sappiamo bene che il suo rapporto con il trascendente è stato un rapporto burrascoso, e che a un certo punto ha addirittura escluso la possibilità di una salvezza trascendente. E allora è stato capace di arrivare alle terre estreme per dare un senso alla vita di tutti i giorni e non sprofondare nell’abisso del nulla. Questo è il combattimento non di un pessimista, ma di un grande predatore di felicità. Sul discorso del pessimismo, io cerco di svincolare Leopardi da questa categoria, che rischia di diventare una categoria esclusivamente psicologica, e di ascriverlo ad una categoria più grande e più profonda, che è quella della malinconia, perché la malinconia è la reliquia dell’Assoluto che c’è nel nostro cuore: è quel chiudersi nella nostra stanza la sera e rendersi conto che qualche cosa non è andato come desideravamo che ci fa pensare che siamo fatti per una felicità che ci sfugge sempre. Ecco, Leopardi con questa malinconia fece i conti tutta la vita: non la disprezzò, ma la raccontò.
D. – Un viaggio, quello che si sviluppa nel suo libro, che vede tre tappe principali: l’adolescenza, la maturità e la riparazione…
R. – Leopardi fu costretto a vivere i suoi 39 anni accelerando la vita interiore: in 39 anni visse tutte le tappe dell’esistenza umana, più rapidamente. L’adolescenza in Leopardi è questo fuoco che io definisco “arte di sperare”, perché lui stesso la definisce così: un fuoco che deriva dal rapimento, dall’aver colto qual è la vocazione principale che c’è nella vita dell’uomo – per lui la vocazione poetica – e cercare di assecondare questa chiamata, questo rapimento. La seconda età è la maturità o “arte di morire”: Leopardi si dovette confrontare con un mondo e con una vita di tutti i giorni che resisteva selvaggiamente al tentativo di strappare, appunto, la felicità all’esistenza. Ma non si diede per vinto e quindi dall’incanto adolescenziale, passando dal disincanto della maturità, approdò all’ ”età del canto”, che è l’età della riparazione o “arte di essere fragili”. Consiste, quindi, nel tentativo di tenere insieme ciò che nella vita continuamente decade e cercare di trovare in essa quella poesia, quell’elemento di eternità che salva ciò che invece sembra destinato solo alla morte.
D. – Penso che il libro sia diretto a qualunque tipo di lettore, in qualunque fase si trovi. Certamente per un genitore può essere illuminante…
R. – Chiaramente per me l’osservatorio privilegiato è quello dei ragazzi con cui ho a che fare tutti i giorni e di rimbalzo, quindi, provare a dire qualcosa anche a chi – come me – è chiamato a confrontarsi con i ragazzi o chiunque sia un educatore a titolo diverso, per provare ad avere degli strumenti per leggere questo nostro tempo, in cui sembra essere diventato difficilissimo educare.
D. – Di solito si pensa che l’adolescenza sia l’età più dura - si dice” ingrata” – e invece proprio quando si comincia a crescere e a vedere che le speranze vengono ridotte, quello è un momento difficile.... è oggi, forse, è proprio questo che i giovani vivono quando non c’è lavoro, non si riesce a realizzare una famiglia ecc...
R. – Sì ed è per questo che noi dobbiamo rafforzare, da un punto di vista educativo, in questo nostro tempo, l’elemento vocazionale della vita di questi ragazzi, perché solo un uomo e una donna che si sanno chiamati ad occupare un posto nel mondo, possono trovare in se stessi e non solo se è tutto pronto, le risorse per affrontare le difficoltà che ci saranno. Quello che io vedo è che, invece, stiamo defraudando questi ragazzi della loro vita interiore.
D. – Importante poi è l’amore, da tante pagine del libro appare così….
R. – Sì. C’è questo passaggio fortissimo di una delle lettere di Leopardi, in cui lui – dopo che la vita veramente lo ha scorticato – dice: “Io non ho bisogno né di gloria né di stima: l’unica cosa di cui ho bisogno è l’amore”. E questa è una frase che tutti possiamo sottoscrivere…
D – Quale messaggio vuole lanciare al lettore del suo libro?
R. – Il messaggio che ci ha lanciato Leopardi: Leopardi chiude tutto il suo percorso interiore con l’immagine della ginestra, il fiore del deserto. Quindi ci vuole dire che siamo chiamati a consolare – come dice lui – a profumare e a migliorare il deserto, fiorendo; e non possiamo prendere il deserto come alibi per non fiorire, ma prendere nel deserto proprio l’occasione, addirittura il nutrimento, per fare qualcosa di bello al mondo. E questo è qualcosa su cui possiamo ritrovarci tutti, credenti e non credenti. Adriana Masotti, Radio Vaticana, Radiogiornale del 4 dicembre 2016.