Oggi il mondo celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne: sono vittime dei mariti, dei fidanzati, dei compagni, dei familiari, ma sono vittime anche della guerra, dei conflitti e degli esodi forzati. Tanti gli appelli a non lasciarle sole. Proprio oggi Papa Francesco ha pubblicato un tweet: “Quante donne sopraffatte dal peso della vita e dal dramma della violenza! Il Signore le vuole libere e in piena dignità”. Il servizio di Francesca Sabatinelli:
I numeri della violenza sulle donne continuano a restare alti in tutto il mondo, nonostante nel tempo si sia cercato di sensibilizzare affinché si mettesse fine a questo turpe e drammatico fenomeno. Ovunque l’essere donna espone al rischio di subire violenza, che sia familiare, casalinga o perpetrata in teatri di conflitto. Da sempre, sul corpo delle donne, si combattono anche le guerre, prova ne è stata nei decenni lo stupro utilizzato come arma. Sempre più donne e ragazzine vanno incontro al rischio di violenza durante le crisi umanitarie. Brunella Pacia, della onlus Plan International Italia:
R. – Le bambine, le adolescenti, le giovani madri, il cui capofamiglia ha dovuto lasciare il villaggio in cerca di fortuna, si ritrovano a vivere in un cespuglio perché è l’unica loro protezione durante un conflitto, o una crisi che può anche essere dovuta ad una calamità. Sono sempre più a rischio violenza, perché basta allontanarsi da questa minima protezione per andare a raccogliere acqua o legna per il fuoco o andare in bagno, per rischiare di essere violentate dai soldati, dalle milizie, ma anche dalle persone che vivono nello stesso villaggio, quindi famigliari, soldati della propria parte.
D. - Nella Giornata contro la violenza sulle donne Plan International pone un interrogativo molto forte, molto importante: chi si ricorda delle bambine esuli?
R. – Spesso sono bambine senza genitori che hanno come unica soluzione quella di lasciare il proprio villaggio e vagare, sono anche le bambine, le adolescenti che, con la madre, cercano di raggiungere il proprio famigliare che si è allontanato in cerca di fortuna. Nel viaggio, ovviamente, sono alla mercé di qualunque cosa, di qualunque persona, quindi possono essere coinvolte in traffico umano, e poi le violenze fisiche e psicologiche sono innumerevoli. Quando poi magari riescono a raggiungere un campo umanitario, un campo di accoglienza, non è detto che trovino protezione perché si tende a dare loro cibo, acqua, ma manca proprio quello di cui loro hanno più bisogno: la protezione. Infatti, in un’indagine svolta in un campo profughi della Liberia, è emerso che l’abuso sui bambini, ma specialmente sulle bambine sotto i 15 anni, era una cosa normalissima e perpetrata dagli stessi ufficiali del campo, dagli insegnanti e dagli impiegati governativi.
D. - Sottolineate anche un altro esempio: quello della Tanzania, dove ci sono le donne del Burundi …
R. – Sì, nel campo di Knembwa il 26% delle donne e delle bambine del Burundi tra i 12 e 49 anni, che avevano già subito una violenza fisica per ragioni di etnia, sono state ulteriormente violentate come rifugiate.
D. - Senza considerare poi che una volta arrivate, ad esempio in Europa, queste giovani donne, queste ragazzine, inevitabilmente finiscono nella rete dello sfruttamento della prostituzione …
R. - Assolutamente, cosa che succede anche nel loro villaggio, anche durante il viaggio. Entrano in questa rete che lascerà delle profondissime ferite su di loro che non potranno mai dimenticare. Loro sono le vittime silenziose e invisibili del nostro mondo, purtroppo.
D. - Un altro dato estremamente drammatico è quello dei matrimoni prematuri …
R. - Sì, nel mondo 15 milioni di bambine si sposano ogni anno. Questo vuol dire una ogni due secondi. Purtroppo, in caso di crisi umanitaria si è visto che i matrimoni prematuri aumentano sempre, perché i genitori, in un certo senso, vogliono quasi mettere al sicuro la propria figlia dandola sposa ad uno sconosciuto, molto più grande, il quale darà in cambio qualche genere alimentare, una capra: la bambina viene utilizzata come una merce, purtroppo. E questo si vede ulteriormente quando le bambine, le adolescenti perdono i loro genitori e vengono affidate a qualche famigliare, o a qualcuno del villaggio, il quale, per prima cosa, cerca di liberarsene in quanto un peso, purtroppo, dandola in sposa.
D. - Perché questa Giornata contro la violenza sulle donne non abbia soltanto un valore simbolico, che appello lancia Plan International?
R. - Plan International lancia la sua campagna “Because I’m a girl” con cui Plan International Italia ha sviluppato due progetti: uno in Etiopia e l’altro in Sierra Leone, con l’obiettivo di frenare i matrimoni prematuri istruendo le bambine, formandole, dando loro un lavoro, in modo tale che siano economicamente indipendenti e possano ritardare il matrimonio.
In Italia, ogni tre giorni, viene uccisa una donna, perlopiù in ambito familiare. Nei primi mesi del 2016, le vittime di femminicidio sono state 116, e si è registrata una diminuzione del solo 3,3% rispetto allo scorso anno. Le cifre sono state fornite dall’indagine di Eures, l’Istituto di ricerche economiche e sociali, dedicata al drammatico fenomeno che rileva come sia l’età media delle vittime sia piuttosto elevata e come il nord del Paese si confermi l’area a più alto rischio femminicidio. “La violenza contro le donne è inaccettabile, è una ferita all'intera società” ha detto il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, per il quale l’eliminazione di tale “piaga ancora aperta” è “obiettivo che ogni Paese civile deve perseguire con decisione”. L’avvocato Paola Lattes è la vicepresidente di Telefono Rosa:
R. – Siamo in una situazione allucinante. Nella gente non c’è la percezione della violenza e del tipo di violenza che viene perpetrata nei confronti delle donne. Purtroppo il pericolo è veramente in agguato per tutti. Il dispregio, essere sempre caricata di insulti, è già violenza. Questo non viene percepito.
D. – La ricerca di Eures ci indica che la percentuale più alta di femminicidio si compie al Nord Italia. Confermate?
R. – Noi confermiamo che dalla Lombardia ci giungono molte telefonate relative alla violenza subita. Però io direi che nelle altre regioni d’Italia forse c’è meno percezione.
D. - Qual è il tipo di violenza maggiormente esercitata sulle donne?
R. - Sicuramente la violenza di tipo piscologico. È in lieve calo la violenza fisica ed è in crescita quella economica. Quindi direi che la violenza in tutte le sue sfaccettature c’è sempre ed è sempre tanta. È importantissimo che le donne siano educate a riconoscere la violenza, perché non è possibile pensare che le donne, ancora oggi, subiscano in quanto pensano che ciò sia dovuto. Non è possibile!
D. – Ci sono dei tratti in comune tra chi subisce e chi violenta?
R. – Nel fare le schede facciamo sempre delle domande relative alla famiglia di origine della persona che denuncia la violenza subita e della persona che agisce violentemente. Abbiamo notato che, spesso, sia l’uno che l’altro provengono da famiglie violente. È come se la donna che subisce la violenza abbia davanti a sé l’esempio di una madre che ha subito violenza e l’uomo che agisce violentemente abbia davanti a sé l’esempio di un padre che si è comportato così con la madre. Per questo motivo sostengo che bisogna intervenire sui bambini, perché solo educandoli e seguendoli nel loro percorso scolastico è possibile far cambiare la mentalità.
D. – Viene spontaneo chiedersi, da spettatori di tragiche notizie che si ripetono, come mai queste donne spesso vadano, quasi consapevolmente, incontro alla morte, ad esempio accettando di incontrare, in situazioni abbastanza isolare, persone che già si sono macchiate di violenza nei loro confronti …
R. – Perché, come donne abbiamo “L’io ti salverò”. Questo aspetto della psicologia femminile esiste ancora.
D. – Si può fare un identikit culturale o si appartiene a tutte le fasce sociali e culturali?
R. – Chi chiama normalmente appartiene ad una fascia culturale abbastanza alta. Quasi tutte hanno la licenza di scuola media superiore, se non la laurea. Sono quelle che finalmente riescono a percepire la violenza come tale; mentre nelle fasce con minor cultura la violenza è considerata un fatto cui non ci si può opporre.
D. – Quali sono secondo lei gli strumenti più importanti che in questo momento sono allo studio per aiutare le donne?
R. – Sicuramente quello che si sta facendo e studiando adesso presso i pronto soccorso degli ospedali, cioè il fatto che la persona che si presenta al pronto soccorso possa essere individuata come vittima di una violenza di genere, perché la persona che ha subito violenza in famiglia arriverà all’ospedale dicendo che le lesioni subite dipendono da una caduta dalle scale, non dirà immediatamente che ha ricevuto un pugno nelle costole, che qualcuno l’ha picchiata. Bisogna che la persona che riceve la vittima sia in grado di percepire che sta dicendo delle bugie e, da lì, farle capire che continuando a nascondere non salva né la famiglia, né i bambini. Deve, in qualche modo, prendere coscienza di quello che effettivamente esiste, cioè violenza in famiglia.
D. – La società che è attorno alle vittime, i famigliari, gli amici, i vicini di casa, sono diventati più consapevoli? C’è più denuncia anche da parte di terzi?
R. – Direi che ce ne è pochissima. Adesso, ogni tanto, iniziano i genitori della vittima, i quali si rendono conto e cominciano a chiedere aiuto soprattutto sul come comportarsi. Francesca Sabatinelli, Radio Vaticana, Radiogiornale del 25 novembre 2016.