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Teatro Argot di Roma, fino al 20 novembre “Tempesta”. La recensione di Fattitaliani

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Forse bisogna vederla due volte per capirne a fondo le sfumature. Il 2 novembre è andata in scena al Teatro Argot di Roma (dove resterà fino al 20 novembre) la “Tempesta” di William Shakespeare per la regia di Maurizio Panici, con protagonisti Luigi Diberti e Pier Giorgio Bellocchio.
Per chi ha negli occhi e nelle orecchie ancora la variopinta versione in lingua originale presentata agli inizi di ottobre sempre a Roma, ma al Globe Theatre, per la regia di Chris Pickles, farà un po’ fatica ad apprezzare questa nuova. Una versione che si basa un po’ troppo sul valore della “parola” senza però creare un’immediata empatia col pubblico. La scena è perfetta. Con la struttura a due piani in cui si muovono gli attori lo spazio bomboniera dell’Argot si apre a nuove suggestioni, ma Prospero (Diberti) appare troppo distaccato per quanto voglia apparire ieratico. Interagisce bene con lo spiritello Ariel, una brava e preparata Claudia Gusmano, ma le reazioni della figlia Miranda, una Valentina Carli un po’ troppo sopra le righe, rendono vani i tentativi di una dialettica solenne. Bravo Pier Giorgio Bellocchio che ha dato nuovo colore al mostro Calibano, confidando agli amici presenti alla prima che “è un personaggio che lo diverte tanto”.
Nelle note di regia Panici scrive: “La Tempesta di W. Shakespeare per molti un testamento, ma anche l’inizio di una nuova era. Oggi più che mai il sapere determina il controllo su tutto quello che si muove. Prospero ha il potere della conoscenza, è l’uomo che dà un nome alle cose, le fa esistere o le nega, è artefice della percezione di una realtà che continuamente ci sfugge e che ha bisogno di essere letta e decifrata”. Panici affronta l’ultimo testo di Shakespeare volendo offrire una lettura che s’interroga sul contemporaneo e ne sviscera limiti e potenzialità. Il mago Prospero, l’innocente Miranda, il mostro Calibano, lo spiritello Ariel, l’usurpatore Antonio, l’ingenuo Ferdinando, Alonso il re di Napoli, il buffone Trinculo, l’ubriacone Stefano sono metaforicamente intrappolati nello spazio di una discarica, area di disordine, violenza e confusione morale, deposito di rifiutati, buco nero disgraziato e melmoso ma allo stesso tempo terreno di nuove possibilità. La parola diventa strumento di riscatto, il naufragio atto necessario di rinascita, la tempesta specchio di una situazione prepotentemente attuale: duchi e mozzi, signori e poveracci convivono e s’intrecciano su uno stesso sfondo, questi ultimi espropriati dal potere sovversivo della parola. Ma tutto questo non sempre arriva al pubblico, restando nelle buone intenzioni annunciate sulla carta.
Ornella Petrucci

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