Paolo Colonnello, giornalista di giudiziaria, sassofonista, inviato e capo della redazione milanese del quotidiano “La Stampa”, membro del Consiglio disciplinare dell’ordine dei giornalisti lombardi ha pubblicato nella collana Quattro D con Centauria Libri "Il senso del tumore per la vita" (pagine 224, €16,90) che nasce dalla sua esperienza "in un mondo che nessuno vorrebbe conoscere. Ma che si scopre popolato di personaggi dalla straordinaria umanità, angeli custodi ironici e coraggiosi. È il mondo dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (nella foto), dei suoi chirurghi e infermieri brillanti ed empatici, dei suoi pazienti più unici che rari."Fattitaliani lo ha intervistato.
Il titolo del libro all'inizio sembra spiazzare un po': sembra però racchiudere in modo esaustivo il significato generale del contenuto o sbaglio?
Non sbaglia. Nasce da una riflessione contenuta verso la fine del libro e scaturita dopo la fine della chemioterapia una mattina mentre, uscito dalla doccia, ho dovuto guardarmi allo specchio e constatare come ero cambiato (fisicamente, in peggio). Così mi sono chiesto che senso aveva avuto tutto ciò per me: fuori c’era il sole, sentivo i miei figli parlare, mia moglie mi chiedeva di sbrigarmi per andare a fare la spesa. Insomma, la vita intorno a me pulsava mentre lo specchio mi rimandava un’immagine di me stesso quasi irriconoscibile, tenendomi ancorato psicologicamente al tumore. Così ho capito: la malattia poteva non avere senso se mi fossi limitato a subirla; poteva invece avere il senso di rilanciare la mia vita se ne avessi capito la lezione. Ho optato per questa seconda scelta. Ed ecco perché questo titolo un po’ forte…
Il sottotitolo Un anno nel reparto “Rari e stravaganti” fa già entrare nello stile della scrittura e della trattazione dell'argomento: come l'ha scelto?
Il reparto “rari e stravaganti” è un’invenzione tipica del mio filtro mentale verso le cose. Mi capita spesso di rielaborare ciò che leggo, come ad esempio l’insegna del reparto dove ero ricoverato, lasciando che sia la psiche a dettarmi il senso giusto di quanto vedo. “Tumori rari e mesenchimali, testa e collo dell’adulto” era un concetto che proprio non mi andava. Così, quando poi ho conosciuto meglio medici, infermieri e pazienti del reparto, ho trovato questa sintesi che mi sembrava più lusinghiera per chi era costretto a trascorrere del tempo in quelle stanze. Va bene avere un tumore raro, ma almeno diamoci un tono un po’ snob, stravagante, appunto… Infatti poi è seguito “l’ufficio vampirelli” che era il laboratorio dei prelievi del sangue, la “macelleria”, che erano le sale chirurgiche, il reparto fotografico dove mi facevano le lastre, e così via…
Quanto è difficile oggi parlare di tumore fra malati e non, e inoltre in maniera "ironica"?
In realtà non si ironizza quasi mai. Tra pazienti, quando si è ricoverati, ci si chiede che tipo di tumore si ha, dove, come lo si è scoperto ma con un certo pudore e non sempre. Nessuno ha piacere di scoprire che c’è di peggio o forse anche di meglio. Si sa che si sta male, ci si tiene la propria malattia e si medita sulla vita, sperando di non perderla. Io avevo uno sguardo un po’ diverso perché sono abituato a raccontare ciò che vedo e a coglierne anche gli aspetti divertenti, persino nelle tragedie. La vita in fondo è questa cosa qui: un continuo rovesciamento di cose belle e brutte.
Di solito, la prima reazione di fronte a un "verdetto" medico così grave qual è?
Di terrore. Almeno la mia. A me è stato detto al telefono e per un bel pezzo mi è sembrato di non riuscire nemmeno a connettere. Il peggio arriva però nei giorni successivi: ricordo che mi svegliavo ogni mattina con questo primo pensiero: ho un tumore, non è possibile, come farò a vivere questa giornata? Ora mi sveglio dicendomi: ho avuto un tumore e sono ancora qua… Insomma, scatta decisamente la sindrome del sopravvissuto…
Quale è stata la lezione che lei personalmente ha imparato e condiviso?
La lezione è quella contenuta nel titolo. Comunque, in generale, apprezzamento per le piccole cose, la bellezza in ciò che ci circonda, l’amore per chi mi sta vicino e anche più lontano. Insomma, cose banali a prima vista, ma vissute con un altro sapore. Per me adesso è tutto più bello e più intenso.
Il sassofono è stato davvero importante. Perfino mia moglie e i miei figli, che di solito mi isolano nell’angolo più remoto della casa quando suono, se non mi vedevano prendere in mano il sax tutti i giorni, si preoccupavano… Perché si era capito che la musica stava rappresentando la mia voglia di vivere, la comprensione della vita stessa e anche, in un certo senso, la normalità. E questo è fondamentale per combattere la malattia. Almeno credo… Giovanni Zambito.
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