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Premio Kaos 2016, ospite Davide Camarrone. La recensione di "Lampaduza"

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Si avvicina la nuova edizione di "Kaos", il festival dell'editoria, della legalità e dell'identità siciliana.
Nel pomeriggio della terza giornata fra gli ospiti della manifestazione che si svolgerà a Racalmuto, nei luoghi di Leonardo Sciascia, ci sarà anche Davide Camarrone che l'anno scorso si è aggiudicato il premio per la sezione narrativa con Lampaduza... edito da Sellerio. "Ha trasportato la cruda cronaca degli sbarchi di Lampedusa in romanzo civile, coniugando l'indignazione per l'artificioso spettacolo della migrazione con il senso di smarrimento dei testimoni. Un senso di colpa che le parole riescono ad assolvere attraverso interrogativi senza tempo", si legge nella motivazione del premio assegnato dalla giuria presieduta dallo scrittore Giacomo Pilati. Riproponiamo la recensione di Fattitaliani.
Lampaduza di Davide Camarrone (Sellerio collana La Memoria, Palermo 2014, pp. 160, € 12,00) è un libro di splendida bellezza letteraria, crudo e intriso di grande tristezza, financo rassegnato, come la nostra terra di Sicilia, in pari tempo raggiante e velata da peritura melanconia. L’ho riletto, e ciò capita raramente; mi sono proposto di leggerlo ancora, e ciò non mi sorprende affatto. L’autore, viva Dio, e tra quelle persone che non si piegano alla moda di esorcizzare la morte con un raffinato maquillage, anzi la guarda in faccia, ne riconosce la forza e la severità. 
Tentare di pensare alla propria morte è il sottofondo dell’intero libro, che per affinità e assonanza rimanda alla saggezza dei sapienti dell’Israele biblico e alle loro meditazioni: nei versetti dei loro libri - frammenti di predicazione e di vita - la morte, coordinata al ricordo, è tema ricorrente. E non ritengo sia casuale la citazione in esergo di una pagina aperta a caso del Talmud. 
Lam-pa-du-za non è l’esito di un capriccio filologico, ma è il modo in cui gli arabi chiamavano la maggiore delle Pelagie. Ed è l’appellativo che dà titolo a questi frammenti di storie lampedusane di oggi e di ieri, raccolte dall’autore come compimento di un gesto di pietà. È racconto di un’isola e della sua comunità, di scempi naturalistici e di un grande disastro umanitario; è rappresentazione di uno scenario dalla sabbia candida e della melma che sta sotto». Narrazione di attese disattese e di paure: «La paura di Lampedusa – scrive Davide Camarrone - mi sembra generata da… una disillusione, dall’improvvisa smobilitazione di un sogno di ricchezza, dal risveglio da un’ubriacatura di benessere».
Il libro segue i tempi lunghi della meditazione. Il suo ritmo non è uniforme. Attinge dalla cronaca ma non la insegue. Il bel volume è il frutto del mestiere di giornalista: ricerca delle storie, ascolto empatico dei testimoni, narrazione. È uno scossone strattonante al sonno della memoria e alla pietà degli uomini. 
Camarrone non si china alle omissioni, dissacra il dire a bassa voce, e tiene dritta la sua schiena innanzi ai consegnatari del silenzio, denuncia perciò la spietata insipienza dei tecnici della fabbrica della paura che non si sono peritati di lucrare consenso elettorale usando le immagini suggestive ma false dell’invasione, dello “tsunami” umano incombente sull’Italia e l’Europa, della clandestinità: “La terra è del Signore” così il rabbino Heschel titolava un libro pudicamente struggente nel 1946, all’indomani dello sterminio degli ebrei dell’Europa dell’Est, quel libro in verità costituiva un lungo Qaddish, ma c’è da chiedersi con l’autore di Lampaduza se dalla storia, che tanti ancora ripetendo Cicerone dicono essere maestra di vita, abbiamo appreso qualcosa. Il paragone tra il dramma di Auschwitz e quello della migrazione attuale regge, ci sono tutti gli elementi: i campi di detenzione, l’indifferenza delle nazioni, la sommersione di uomini donne e bambini in un mare di sabbia o di acqua, l’immancabile uso delle violenze da parte degli aguzzini di turno, ieri le SS o i Kapò, oggi i passeur, le polizie corrotte, i gestori e gli operatori senza scrupoli di sedicenti centri di accoglienza. Il Nostro non lascia spazio al dubbio e scrive in proposito: «È un crimine che si ripete, quello dell’annichilimento dell’uomo, della distruzione della sacralità della vita umana. Un dolore che non finisce.». 
Fa bene l’autore a farci ricordare Mohamed Bouazizi e il suo olocausto, ma fa di più nel dedicare le sue fatiche a Noureddine Adnane, vittima sacrificale di una applicazione zelantissima della norma da parte dei Vigili Urbani di Palermo, e a Georg Semir altro giovane olocausto, vittima dell’indifferenza e della incapacità reattiva della maggior parte dei siciliani ai soprusi e alle ingiustizie. Fa benissimo a rammentarci che con la cacciata degli ebrei del 1492 e con le persecuzioni che l’hanno preceduta e seguita abbiamo cessato di essere accoglienti, smonta così uno stereotipo falso e trito, tant’è che nell’accoglienza non pochi hanno visto l’affare consumando l’ennesima truffa all’italiana. 
L’autore nel far fluire i suoi pensieri coglie e rilancia quanto Papa Francesco aveva domandato nell’omelia dell’luglio 2013 citando una commedia di Lope de Vega: «Chi è il responsabile di questo sangue?», la risposta non poteva che essere italianissima: «Tutti e nessuno!». 
Camarrone sa che la storia non la si può fermare è inarrestabile, stiamo pagando e facendo pagare con le nostre politiche e pratiche dissennate un prezzo insensato alle generazioni che verranno, sulle nostre coscienze perciò grava l’ostruzione del futuro, tuttavia «Qualcosa, sta cambiando», la Sicilia torna a colorarsi e per le strade si odono lingue e canti che da secoli avevamo dimenticato. Alfonso Cacciatore
© Riproduzione riservata

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