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Giornata Mondiale dell'Alzheimer: "chissà com'è la vita dentro una bolla", riflessione di Anna Burgio

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“Con uno stecco inchiostrato segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola. Andò in cortile e segnò gli animali e le piante: vacca, capro, porco, gallina, manioca, malanga, banano. A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l'utilità.
Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffé e fare il caffellatte. Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte”.  
Nei Cent’anni di solitudine che hanno reso celebre Macondo, il visionario paese immaginato da Gabriel Garcia Marquez, tra le tante calamità che tormentano gli abitanti ve n’è una fu particolarmente pesante. La malattia dell’insonnia che colpisce la popolazione porta con sé anche la perdita della memoria, da cui gli uomini e le donne del paese guariranno soltanto grazie a un antidoto. 
Non c’è antidoto, purtroppo, o non ce n’è ancora, per la perdita di memoria dei nostri giorni.
Si dice che lo stesso Garcia Marquez, quasi presago del suo destino, sia stato colpito dal morbo di alzheimer e che non possa più scrivere perché non può più ricordare.
Difficile immaginare, se non la si vive, la duplice sofferenza di una dimenticanza tanto devastante, quella di chi non ricorda e quella delle persone che a chi non ricorda stanno accanto. 
La memoria radica la nostra presenza su questa terra, è l’ancoraggio che ci permette di dare un senso alla nostra esistenza.
Ricordare è essenziale, quanto essere ricordati. È una questione di riconoscimento, di interattività, di appartenenza, di individuazione di spazi e luoghi, di ideali e affetti.
Chi non ricorda più crea, involontariamente e dolorosamente, una bolla tra sé e gli altri, determina un isolamento contro cui chi continua a ricordare testardamente sbatte, con sofferenza e frustrazione, con un senso annientante di impotenza. 
Quello che arriva fuori è il silenzio, l’assenza; è inimmaginabile cosa ci sia dentro, se e come ancora si articoli i pensiero, quali forme assumano le sensazioni, quale il vocabolario usato per decodificare le parole dell’anima. Non c’è più un linguaggio condiviso attraverso cui raccontarlo, niente più significante e significato, nessun canale di comunicazione.
Nulla. 

In chi mantiene vivo il ricordo nasce, a volte, la necessità di mettere su carta un’esperienza così estrema. Scrivere è tracciare segni, nella prospettiva e nel desiderio che restino indelebili. È quasi un cercare di risarcire, con la memoria della propria scrittura, la memoria assente e perduta della persona cara. 
E’ quello che ha fatto Barbara Serra, autrice del libro “Anna, mia madre”, che attraverso le pagine del suo libro – testimonianza intensa e dolente – ha cercato di perpetuare la storia della sua famiglia raccontata con le parole di sua madre, prima che esse sparissero per sempre a causa della demenza senile. 
È quello che ha fatto Peppe Zambito con il racconto “I miei rispetti, signora Alzheimer” - riportato nel link -  attraverso il quale ha preso il coraggio a due mani e ha guardato in faccia la malattia che stava rendendo il mondo trasparente agli occhi di suo padre. 
L’alzheimer, come anche la demenza senile, è una malattia che colpisce prevalentemente persone in età avanzata; colpisce le nostre madri e i nostri padri, colpisce i nostri nonni. È come dire che colpisce la nostra storia, il filo che ci lega al mondo da cui veniamo, e a cui apparteniamo.
Difficile rassegnarsi a recidere quel filo, difficile lasciare andar via chi, direttamente o indirettamente ci ha generato. Difficile, ma inevitabile. 
L’unica strada, allora, accanto alla ricerca e al tentativo di cura, è quella di riannodare caparbiamente quel filo, donando le nostre parole e i nostri ricordi a chi non ne ha più; pronunciando, scrivendo, cantando quelle parole che, uniche, possono ridare un significato alla nostra esistenza. 
Anna Burgio





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