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"Il figlio sospeso" un film sull'utero in affitto. Intervista al regista Egidio Termine

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Solo se conosciuta la verità rende liberi. Parte da questo assunto ‘Il figlio sospeso’, l’opera del regista siciliano Egidio Termine proiettato oggi alla Camera dei deputati nell’ambito un’iniziativa organizzata dal Movimento per la vita.
Il film, nelle sale il prossimo autunno, affronta il tema della maternità surrogata senza entrare nel merito di questioni bioetiche o legali, ma piuttosto affrontando lo stato di sospensione del protagonista, Lauro, la cui sete di verità lo spinge ad un "viaggio" alla ricerca della sua identità. Senza essere un film di “denuncia”, "Il figlio sospeso" riesce a raccontare tutta la drammaticità legata alla pratica dell’utero in affitto. Per conoscere il vero intento di questa narrazione cinematografica Marco Guerra ha intervistato il regista Egidio Termine:
R. - Avevo lasciato il cinema 20 anni fa, in seguito ad una conversione verso il cattolicesimo. Mi sono iscritto alla facoltà di teologia e studiando materie come antropologia, psicologia, sociologia, mi sono sentito tirato in causa dell’impegno come cristiano di dare un contributo alla cinematografia. In quel periodo, circa dieci anni fa, si cominciava a parlare di maternità surrogata.
D. - C’è un pubblico pronto a recepire queste storie?
R. - Io non ho scritto un saggio sulla maternità surrogata; ho scritto una storia cinematografica. Mi sono servito del cinema che è emozione. Se non arrivi al cuore del pubblico non hai fatto cinema e quindi hai tradito in qualche modo la verità dello strumento. Ho cercato di rispettare questo e i riscontri sono stati questi: ho visto persone piangere in sala al Festival di Taormina e al Festival di Bari. Tutto questo, poi, deve essere razionalizzato, ma prima arriva al cuore, mentre a volte le leggi, i saggi, i ragionamenti arrivano direttamente alla mente e lì ci si può anche inquinare con pregiudizi di carattere politico e di parte. Però nel cuore non ci sono schieramenti né politici né scientifici: il cuore è il cuore e basta.
D. - Con la sua narrazione cinematografica, quali aspetti ha voluto mettere a fuoco di questo drammatico fenomeno della maternità surrogata?
R. - Si parla spesso di maternità surrogata focalizzando l’attenzione sulle madri che oggi possono essere anche quattro. Nessuno pensa invece al bambino, al figlio che è il protagonista di questo fatto sociale nuovo. Quindi mi sono messo dalla parte del bambino e lo stesso titolo “Il figlio sospeso” è esplicativo di questo mio punto di vista che parte appunto dalla necessità di attenzionare il bambino, il protagonista che viene scambiato nella maternità surrogata.
D. - Lei racconta un giovane uomo alla ricerca e una madre biologica che non si è mai arresa all’idea di riveder suo figlio. Questa storia poi non è molto lontana dalla realtà che emerge dalle testimonianze di persone concepite in questo modo …
R. - Intanto mi oppongo ad un fatto storico che sta avvenendo da un punto di vista sociologico: il passaggio dall’umanesimo al post-umanesimo che vuole vedere e rielaborare la stessa antropologia umana. Da un punto di vista scientifico, filosofico ci si inventano delle teorie ma, purtoppo per loro, ci si scontra sempre con quella che è la natura dell’uomo, la vera antropologia dell’uomo, quasi a volere forzare un sentimento che mai potrà morire. Questa ricerca c’è sempre: una mamma sa sempre e comunque che da qualche parte ha un figlio.
D. - Il protagonista di questa storia indica anche una strada per la riconciliazione. Nel film si afferma che solo se conosciuta per intera la verità rende liberi. Sembra un manifesto per la felicità …
R. - Intanto il Vangelo stesso ci dice che la verità ci fa liberi, e la verità è Gesù. Ma anche laicamente questa frase ha il suo valore essenziale: solo con la verità si può raggiungere una concretezza di situazioni che fanno migliorare l’essere umano. Con la bugia accade tutto il contrario; l’essere umano si perde. Questo personaggio, il protagonista del film, va alla ricerca della verità in quanto insito nell’essere umano, nell’antropologia vera. Questa ricerca della verità si ottiene pagando anche a caro prezzo con una ferita che comunque resterà per sempre incisa nell’essere umano. La conoscenza della verità ti fa soffrire, ma ti rende anche libero con una ferita, quindi rende vero, reale. Tutto questo non può che portare un beneficio anche a coloro che sono responsabili di questa sofferenza. Le madri alla fine si riconciliano e riescono a continuare a vivere dal momento in cui il figlio li riconcilia un po’. Il personaggio principale è Lauro che paga ma dà la vita agli altri, dà l’armonia nella crescita anche alle madri che hanno commesso il fatto. Marco Guerra, Radio Vaticana, Radiogiornale del 27 luglio 2016.

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